Estratto: Opera al Rosso di Micol Mian, Sabrina Romiti



SINOSSI: 

Il Rosso: un ragazzo dai capelli ramati, sensuale e crudele. 
Un ragazzo perfetto. 
Un ragazzo che non esiste. 
Edward lo sogna da quando era bambino: il compagno immaginario di un’infanzia solitaria. 
Rowan lo odia perché Edward sembra amarlo più di ogni altra cosa. 
Ma cosa cerca davvero Edward nel Rosso, quali incubi sta tentando di fuggire? E perché Rowan non riesce a smettere di ritrarre un soggetto che in realtà detesta? 
Ambientato fra i grattacieli di Manhattan e una villa maledetta a Long Island, il romanzo racconta il percorso che Edward e Rowan dovranno compiere per sigillare nella tela di un quadro il legame che li unisce. Per trasmutare, in una sorta di processo alchemico, le loro ossessioni in pigmento rosso. Il loro amore nelle pennellate di un ritratto. E la libertà in un patto di sangue indissolubile, sotto lo sguardo alieno di un ragazzo dipinto a olio.



PRESENTAZIONE:


Opera al Rosso è il primo romanzo di due autrici che scrivono in coppia da dieci anni e che vengono dal mondo della scrittura online.
È un libro che si propone di esplorare gli aspetti psicologici di un rapporto di interdipendenza fortemente disfunzionale: la tematica m/m, pur presente, non è l’essenza del romanzo ma si riduce più che altro a pretesto per analizzare le dinamiche di una relazione molto improntata ai ruoli dom/sub in ambito maschile.


ESTRATTO:

Il giorno del suicidio di suo padre, Rowan non aveva pianto.
Quando gli avevano dato la notizia si era limitato ad ascoltare, in silenzio, e poi era rimasto in giardino a osservare il cielo che scuriva e le foglie degli alberi che fremevano piano, scosse dal vento.
La mattina seguente, a scuola, i corridoi bisbigliavano al suo passaggio. 
I professori gli avevano fatto le condoglianze, alcuni compagni avevano offerto sostegno. Comprensione.
Lui li aveva guardati e basta, senza rispondere e senza capire. Senza quasi vederli, neanche. Tutto il mondo sembrava lontano, come di vetro, e ogni parola arrivava al cervello svuotata di senso. 
In realtà non si sentiva sconvolto, non era il dolore a lasciarlo stordito. 
Quell’evento l'aveva colto impreparato e aveva fatto tremare la terra sotto i suoi piedi, vero, ma la scossa era durata poco. Attimi soltanto. Subito dopo era subentrata una calma inquietante, irreale. 
Anche adesso, a distanza di due mesi dalla disgrazia, gli sembra di sentirsi addosso lo stesso straniamento ubriaco. 
Seduto di fronte a lui in un cocktail bar di Manhattan, Edward lo osserva senza interesse. In un altro periodo Rowan avrebbe probabilmente provato a distrarlo, ma in giorni come questo anche la presenza dell’amico sembra perdere concretezza, diventare scivolosa come le superfici lisce e lucide di quel locale troppo ricercato. 
Fissando lo sguardo sul riflesso di un vaso di vetro, pensa che forse se riuscisse ad abbozzare un disegno saprebbe rendere quello scenario un po’ meno asettico. Solo il pensiero gli dà la nausea, però, e poi il blocco degli schizzi l'ha lasciato a casa. Questo solo è indice di quanto fosse turbato, mentre usciva. 
Alla notizia della morte di suo padre, aveva presentito un cambiamento netto. 
I particolari non si lasciavano ancora precisare ma la sensazione non era sbiadita, nei giorni successivi, così che quando Lawrence aveva fatto cadere la bomba, il mondo intero era esploso. 
Suo fratello aveva cercato di non spaventarlo troppo. 
«Non è che siamo senza soldi del tutto», aveva precisato. «È solo che è un momento no, questo. Abbiamo debiti da pagare, la società sta attraversando una crisi. Tempo qualche anno e sarà tutto sistemato. Nel frattempo dovremo metterci d'impegno. Fare qualche sacrificio».
Il che significava, tradotto nell'unico linguaggio che il cervello di Rowan comprendesse davvero, niente Parigi. 
«Potrai iscriverti a qualche scuola d'arte qui, tra un paio d’anni», l'aveva incoraggiato Lawrence. «Alla fine non è che casca il mondo, no?».
Il mondo non sarebbe crollato, certo. Non crolla mai, qualunque cazzo di cosa succeda. A chiunque. 
Ma lui si trovava solo, sperso, abbandonato all’inizio di una strada che risultava improvvisamente impraticabile: le sue aspettative bambine si erano infrante di colpo e i frammenti cadevano a pioggia tutt’intorno, ferendolo. Tanti piccoli taglietti che sarebbero diventati ancora più profondi quando avesse camminato sui vetri, muovendo qualche passo. E i tagli, questo lo sa da tempo, non si rimarginano mai del tutto. Qualche segno resterà sempre, il che forse non è un male, certo: le cicatrici sono terribilmente estetiche, quando guariscono. Mentre te le fai, però, bruciano e basta. Sempre che non si infettino.
Distogliendo lo sguardo dal vaso di vetro, Rowan lo riporta su Edward. 
L'amico ha l'aria annoiata, come sempre - la schiena premuta sulla spalliera del divanetto e le gambe accavallate in una posa elegante. 
Sta fumando. 
La sigaretta, tra le sue dita, ha quell'angolatura particolare che Rowan adora disegnare. Non conosce nessun altro che la tenga in quel modo. 
E poi c’è l’anello. Un rubino incastonato nell’oro, affilato come una lama.
«Ci vieni spesso, qui?», gli domanda. 
Lui prende una boccata di fumo, senza guardarlo. 
«A volte», risponde. 
«Beh, ti capisco. È davvero molto stimolante».
«Non c'è nulla di molto stimolante al mondo, Rowan. Mi spiace».
Finalmente, Edward si volta. 
Lascia scivolare su di lui quei suoi occhi di metallo - viso, e gola, e clavicola che spunta dallo scollo morbido della maglietta. Aspira un'altra boccata di fumo, poi cambia posizione spostando il peso sull'altro gomito. Si passa la lingua sulle labbra, piano. 
«Com'è che non scarabocchi nulla, stasera?».
Lui fa una smorfia. «Oggi Lawrence mi ha dato una bella notizia. Pare che gli affari vadano a gonfie vele, negli ultimi tempi». Gli lancia un'occhiata, scrolla la testa. «Posso scordarmi Parigi, ha detto. È già tanto se riesce a mandarmi in una scuola d'arte qua in città».
«Alla fine l'arte è sempre la stessa dovunque», è il commento che riceve. Edward soffia fuori il fumo in una scia sottile e osserva il nastro bianco sciogliersi nell'aria, lo guarda snodarsi verso l'alto in spirali sinuose. 
Non sembra particolarmente sorpreso. È come se l’aspettasse da tempo, una rivelazione del genere. 
«Poi, fare l'artista a Parigi andava di moda nel secolo scorso», aggiunge, accennando un sorrisetto ironico. «Dovresti aggiornare le tue ambizioni».
«Vaffanculo. E comunque non è affatto vero che l’arte è sempre la stessa. Non per me, almeno. L'Europa…». Rowan si interrompe, raddrizzando la schiena. «Ma tanto io a Parigi ci arrivo, prima o poi. In un modo o nell'altro».
«Sicuro. Buona fortuna, allora».
Schiacciando la cicca nel posacenere, l'altro osserva con indifferenza un tipo che gli sta passando vicino: capelli scuri tirati indietro, viso spigoloso e duro. Abito impeccabile, con un foulard di seta annodato al collo. Venticinque anni forse. Più o meno. E un modo di camminare che trasuda sesso. 
«Che palle», è il suo unico commento. 
Allunga il braccio a prendere il cocktail e si porta il bicchiere alle labbra, scosta le bandierine con un gesto infastidito. 
«Che palle cosa?»
«Questo locale. Questi dementi rileccati. Questa serata. La vita. Tu».
«Sempre gentile, eh», borbotta lui. «Perché allora siamo qui, se ti annoi così tanto?»
«E perché no? Un posto vale l'altro».
«Dio, Ed. Ricordami di venire da te, il giorno che vorrò suicidarmi». Rowan si lascia sprofondare contro l'imbottitura della poltrona, svogliatamente. «Dovrò trovare un modo di tirar su qualche soldo, però, se Lawrence mi taglia i fondi. Inventarmi qualcosa». Una pausa, assorta. «L’altro giorno un tizio mi ha offerto cinquanta dollari per un pompino», confessa, ma Edward guarda lontano e sembra non aver neanche sentito, non commenta.
«Che posto di merda», ripete invece, quasi fra i denti. Si alza, subito dopo, sparisce fra la folla.
Quando torna al tavolo ha in mano altri due cocktail, sono trascorsi almeno dieci minuti e la musica è cambiata, in sottofondo.
Porgendogli uno dei bicchieri, torna a guardare altrove.
«Bloody Mary va bene?», domanda. Poi, quasi distrattamente: «Ti ci vorrebbero secoli di pompini, per una mansarda a Montmartre».
Lui si porta il bicchiere alle labbra, fa una smorfia.
«Hai qualche suggerimento alternativo?», chiede. «Perché penso che con i ritratti ai turisti per strada ci metterei ancora più tempo. Il sesso completo lo pagano di più, no? Magari potrei anche far valere qualcosa la mia verginità. Quanto credi che potrei ricavarci? Non c’è gente che impazzisce, per queste cose?».
Edward rimane a fissarlo: è capace di guardarti per intere decine di minuti così, senza batter ciglio. Senza che il viso mostri la minima traccia di espressione, senza che lui neanche sembri vivo. 
«Sei più stupido di quanto pensassi», scandisce infine, la voce completamente atona. 
«Perché?».
Ma l’altro non risponde; di nuovo si alza in piedi, abbandona sul tavolo una banconota da dieci dollari.
«Io me ne vado», annuncia, già sulla strada verso l’uscita del locale. «Questo posto mi ha stancato, e mi hanno stancato le tue stronzate».
Non è la prima volta che si comporta in questo modo, Rowan è abituato a certe cose. A volte si stupisce ancora all’idea che la loro amicizia sia durata tanto a lungo, se di amicizia si può parlare: più spesso ancora, si domanda se non sia semplicemente una tolleranza quasi forzata, quella che tiene Edward legato a lui. 
Trotterellargli dietro lo fa sempre sentire un po’ bambino, quindi si prende qualche secondo prima di seguirlo. 
«Lavori, domani?», domanda, affiancandolo sul marciapiede.
Intorno a loro New York è il solito caleidoscopio di vetro e acciaio, palazzi infiniti che trafiggono il cielo e turisti che inciampano per sollevare lo sguardo; camminare tra la folla è un’arte che impari presto, e lui non ha ancora capito esattamente se si trova più a suo agio nella metropolitana affollata dell’ora di punta o sulle spiagge di Long Island in inverno. Manhattan non gli piace ma Edward è lì, spesso, e pur di stargli vicino Rowan sopporterebbe qualunque cosa.
Davanti a lui l’amico cammina veloce, non c’è differenza fra come si muove per strada o lungo i corridoi dell’azienda del padre: è come se ogni spazio gli appartenesse di diritto, come se fosse normale che la gente che incontra si faccia da parte per lasciarlo passare.
«Ti sembra che domani sia un giorno festivo?», risponde, e fa scattare l’antifurto della sua utilitaria. Ha strani gusti anche in fatto di automobili, Edward: potrebbe permettersi un parco di Ferrari e invece si muove sulla più anonima delle berline.
Quando entra in macchina Rowan lo imita, lasciandosi cadere sul sedile di fianco. 
«Vuoi andare a casa?», domanda.
«Cazzo, ma sei capace di startene zitto cinque minuti?», sbotta l’altro, esasperato. «Domande, domande, domande. Una più stupida dell’altra!», esclama, ruotando la chiave nel quadro con un movimento quasi rabbioso. Sgomma in strada, accelera. «Fanculo».
Senza dir niente, Rowan guarda fuori dal finestrino.
Il pensiero torna a Parigi, quasi inevitabilmente: Edward l’ha sempre sfottuto, per quella sua ossessione, ma neanche gli altri hanno mai saputo capirla: non suo padre e suo fratello, non i suoi insegnanti, di certo non i compagni di classe che sembrano ignorare studiosamente qualunque cosa lo interessi. Eppure c’è una pulsione sotterranea che lo lega a quella città, da sempre; la stessa che guida la matita su un foglio quando disegna, la stessa che muove il pennello, mischia il colore, che dà vita al bianco della tela e lo trasforma.
Perché proprio Parigi, è difficile dirlo.
Nessuno, del resto, gliel’ha mai chiesto.
E nel frattempo Edward guida come se il suo scopo fosse quello di schiantarsi a ogni incrocio, come se né il traffico né i semafori fossero cose che lo riguardano. Rallenta solo quando si ritrovano incolonnati sulla Madison Avenue, e le urla dei clacson echeggiano fra i grattacieli come uccelli impazziti.
«Che valore daresti, esattamente, alla tua verginità?», domanda allora, senza staccare lo sguardo dalla strada. Come se fosse normale riprenderlo così, quel discorso, fra l’ingranare della prima marcia e lo stacco della frizione. 
Confuso, Rowan lo studia qualche istante.
«Sinceramente?», chiede. «Non ci ho mai pensato sul serio. Dipende da quanto potrei chiedere, immagino».
Non saprebbe neanche dire da cosa sia partita l’idea, esattamente: al tizio dei cinquanta dollari aveva riso in faccia, sul momento non l’aveva neanche sfiorato il pensiero di prenderlo in parola. Ma quando Lawrence ha messo il veto su Parigi è come se fosse scattato qualcosa, nella sua testa, un’insofferenza verso la sua casa, la sua vita, l’aria stessa che respira. Più ci pensa, più l’idea di affittare il suo corpo a uno sconosciuto per passare a riprenderlo qualche tempo dopo, così, tipo macchina a noleggio, inizia a sembrargli attraente. Una via di fuga quasi praticabile.
«Pensi sia una stronzata?», chiede all’amico.
«Come al solito, non hai risposto alla mia domanda», è tutto ciò che Edward trova da ribattere, mentre continua a fissare la strada. «Quantifica, veloce».
«Ma come faccio a quantificare così, alla cazzo?», sbotta lui, sollevando le mani. «Se vuoi stasera mi faccio una ricerca su Craiglist e domani ti so dire qual è il prezzo di mercato per stronzate del genere, non so… Non ho nemmeno idea di quanto puoi tirare su con una scopata normale, figurati».
Edward guadagna ancora qualche metro di strada, frena di nuovo. Accende la sigaretta, abbassa il finestrino.
«In ogni caso, io ho molti soldi», dice infine, quasi parlando a se stesso. «Abbastanza da esserne nauseato, lo sai».
In un primo momento, l’affermazione appare talmente slegata dal contesto da sembrare un tentativo di cambiare discorso. Voltandosi del tutto sul sedile, Rowan scruta con più attenzione il viso dell’amico: ne studia i tratti, come se non li avesse già imparati a memoria mille volte, come se non tentasse di ritrarli da anni, soltanto per il piacere di fallire, e avere la scusa per tornare a tentare.
Di colpo si sente la gola secca. 
Il cuore sta battendo più veloce del solito e non ha idea del motivo, non ha idea di quale sia il problema.
«Che cosa stai dicendo, Edward?», domanda. 
L’altro appare serissimo, perfino ruvido nella praticità del ragionamento.
«Non è quello che ripeti dall’inizio della serata, non hai detto di volerti pagare la tua Parigi col sesso?». Si volta, inarca le sopracciglia. «Fallo, allora, chiedimi di scoparti e stabilisci il tuo prezzo. Non è difficile Rowan, basta solo un po’ di coerenza».
E c’è silenzio, dopo, come se lo scorrere della vita si fosse bloccato su un fermo immagine muto. 
Fuori New York continua a muoversi con la noncuranza tipica delle città troppo impegnate per prestare attenzione ai drammi individuali; la gente cammina sui marciapiedi, si assiepa all’entrata della metro, le altre auto proseguono lente nel traffico congestionato. Ma tra loro è scesa una quiete strana, sospetta, come un elastico teso tra due punti di vuoto.
«E se dicessi qualcosa come centomila dollari?», chiede Rowan.
«L’importante è che tu sia consapevole del fatto che te li dovrai guadagnare tutti», risponde Edward, senza battere ciglio. «Uno a uno, senza sconti».
«E cosa dovrei fare?»
«Tanto per cominciare, devi chiedermelo».
«Di pagarmi centomila dollari per fare sesso?».
La fila riparte, ma la loro auto non si muove. Qualcuno suona il clacson, Edward serra i pugni sul volante.
«Chiedimelo, Rowan», scandisce, una sillaba alla volta.
È difficile. 



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