Estratto Dark artifices - Signora della mezzanotte - Cassandra Clare

Titolo: Dark artifices - Signora della mezzanotte
Editore: Mondadori
Data di uscita: 15 Marzo 2016
Cartaceo: €16.15
Pagine: 600

Trama: Los Angeles 2012. Sono passati cinque anni da quando Emma Carstairs ha perso i genitori, barbaramente assassinati. Dopo il sangue e la violenza a cui ha assistito da bambina, la ragazza ha dedicato la sua vita alla lotta contro i demoni ed è diventata la Shadowhunter più talentuosa della sua generazione. Non ha però mai smesso di cercare coloro che hanno distrutto la sua famiglia e, quando si rende conto che l'unico modo per arrivare ai colpevoli è quello di allearsi con le fate, da anni in lotta con gli Shadowhunters, non si tira indietro. È una partita molto pericolosa, ma Emma, insieme a Julian, suo migliore amico e parabatai, ha tutte le intenzioni di giocarla fino in fondo. Non solo la ragazza potrebbe finalmente vendicarsi, ma per Julian si apre la possibilità di riabbracciare il fratello Mark, che anni prima era stato costretto a unirsi al Popolo Fatato. Inizia così una corsa contro il tempo, un'indagine ricca di colpi di scena, dove i bluff e i doppi giochi non mancano e i sentimenti più profondi sono messi a dura prova. Compreso quello che lega Emma e Julian, forse di natura diversa rispetto a quel legame puro, unico e indissolubile che dovrebbe unire due parabatai: un sentimento che la Legge non accetta.


Autrice: Cassandra Clare è nata a Teheran e ha vissuto i primi anni della sua vita in giro per il mondo con la famiglia, trascinandosi sempre dietro bauli di libri. Dopo aver lavorato come giornalista tra Los Angeles e New York, ora si è fermata a Brooklyn dove, per non farsi distrarre dai gatti e dalla TV, scrive i suoi libri nei bar e nei ristoranti. La saga Shadowhunters ha appassionato milioni di lettori amanti del genere urban fantasy con oltre 36 milioni di copie vendute nel mondo. La saga ha ispirato un film per il cinema uscito nelle sale nel 2013 e una serie TV in onda nel 2016.

Prologo

Los Angeles, 2012 Le serate al Mercato delle Ombre erano le preferite di Kit. In quelle occasioni gli era permesso uscire di casa e aiutare suo padre alla bancarella. Frequentava quel luogo da quando aveva sette anni: adesso ne erano passati otto, eppure Kit provava ancora lo stesso senso di stupore e meraviglia quando camminava lungo Kendall Alley, nella città vecchia di Pasadena, fino a raggiungere un muro di mattoni spoglio, attraversarlo ed entrare così in un mondo esplosivo di luci e colori. A pochi isolati di distanza c’erano gli Apple Store che vendevano computer portatili e dispositivi vari, ristoranti della catena Cheesecake Factory e supermercati di cibo biologico, negozi American Apparel e boutique alla moda. Ma in quel punto la strada si apriva su una piazza enorme, sorvegliata su ogni lato per evitare che qualcuno si avventurasse per errore nel Mercato delle Ombre. Il Mercato compariva con la luna crescente o calante, esisteva e non esisteva. Kit era consapevole, quando metteva piede tra le file di vivaci bancarelle, di stare camminando in uno spazio che al sorgere del sole si sarebbe volatilizzato. Ma per il tempo in cui ci restava, si divertiva. Era strano avere il Dono quando nessun altro attorno a te lo possedeva. Era suo padre che lo definiva “Dono”, anche se Kit in fondo non lo riteneva chissà quale dote. Hyacinth, l’indovino dalla pelle azzurra nel banchetto in fondo al mercato, lo chiamava “Vista”. Per Kit quella definizione aveva più senso. Dopotutto, l’unica cosa che lo distingueva dai ragazzi normali era la capacità di vedere, letteralmente, cose che loro non potevano distinguere. Cose innocue, a volte; pixie che sbucavano dall’erba secca lungo i marciapiedi spaccati, pallidi volti di vampiri nelle stazioni di servizio a tarda notte, un uomo che schioccava le dita al bancone di una tavola calda – a guardarlo una seconda volta, si era accorto che le dita erano artigli.
Gli succedeva da quando era piccolo, e succedeva anche a suo padre. La Vista era una caratteristica ereditaria. Reprimere l’impulso di reagire era la cosa più difficile. Un pomeriggio, tornando a casa da scuola, aveva visto un branco di lupi mannari che lottavano per la supremazia facendosi a pezzi in un parco giochi deserto. Si era fermato sul marciapiede e aveva urlato finché non erano arrivati i poliziotti, che però non riuscivano a vedere nulla. Dopo quell’episodio suo padre l’aveva tenuto quasi sempre in casa, lasciando che si istruisse da solo leggendo vecchi libri. Giocava ai videogiochi nel seminterrato e usciva di rado, o durante il giorno oppure quando c’era il Mercato delle Ombre. Lì non doveva preoccuparsi delle proprie reazioni: il Mercato era un posto bizzarro e variopinto persino per chi lo popolava. C’erano ifrit che tenevano al guinzaglio djinn ammaestrati e splendide ragazze peri che danzavano davanti a bancarelle con polveri luccicanti e pericolose in vendita. Una banshee gestiva un banchetto che prometteva di rivelarti il giorno della tua morte, anche se Kit non riusciva a immaginare perché qualcuno dovesse desiderare saperlo. Un cluricaun si offriva di ritrovare oggetti smarriti e una graziosa, giovane strega con i capelli corti verde brillante vendeva ciondoli e braccialetti incantati con cui attirare attenzioni romantiche. Quando Kit la guardava, lei gli sorrideva. «Ehi, Romeo.» Suo padre gli diede una gomitata nel costato. «Non ti ho portato qui per fare il cascamorto. Aiutami ad appendere l’insegna.» L’uomo spinse con un calcio lo sgabellino di metallo verso di lui e gli passò un’asse di legno sulla quale aveva impresso a fuoco il nome della sua bancarella: DA JOHNNY ROOK. Non era il più fantasioso dei nomi, ma d’altronde suo padre non aveva mai brillato per creatività. Però era strano, rifletté Kit mentre si arrampicava per appendere l’insegna, se si pensava che la sua clientela era composta da stregoni, lupi mannari, vampiri, spiriti, wight, ghoul e, una volta, persino una sirena (si erano incontrati di nascosto al parco acquatico). Nonostante tutto, forse un’insegna semplice era la cosa migliore. Suo padre vendeva pozioni e polveri, nonché, sottobanco, alcune discutibili armi legali, ma non erano quelle ad attirare la gente. Johnny Rook era uno che sapeva le cose, ecco il punto. Nel Mondo dei Nascosti di Los Angeles non poteva succedere niente senza che lui venisse a saperlo, e non esisteva nessuno così potente da impedirgli di conoscere un segreto sul suo conto o un modo per contattarlo. Johnny era uno che sapeva e, se avevi i soldi, parlava. Kit saltò giù dallo sgabello e il padre gli diede due banconote da cinquanta dollari. «Vai a fartele cambiare» gli disse senza guardarlo. Aveva estratto da sotto il bancone il suo libro mastro rosso e ora lo stava sfogliando, probabilmente per controllare chi gli dovesse dei soldi. «Sono i tagli più piccoli che ho.» Kit annuì e sbucò fuori dalla bancarella, felice. Ogni commissione era buona per andarsene un po’ a zonzo. Passò accanto a un banchetto pieno di fiori bianchi che emanavano un aroma misterioso, dolce e letale, e a un altro dove un gruppo di persone in completo elegante distribuiva opuscoli davanti a un cartello che diceva: SEI IN PARTE SOPRANNATURALE? NON SEI SOLO. I SEGUACI DEL GUARDIANO VOGLIONO LA TUA FIRMA PER LA LOTTERIA DELLA FORTUNA! FAI ENTRARE LA BUONA SORTE NELLA TUA VITA! Una donna con i capelli neri e le labbra rosse cercò di piazzargli un volantino in mano. Vedendo che lui non lo prendeva, lanciò uno sguardo languido in direzione di Johnny, il quale le fece un sorriso. Kit alzò gli occhi al cielo, esasperato. Ogni giorno spuntavano come funghi milioni di piccoli culti per l’adorazione di angeli e demoni minori, ma non si capiva mai che fine facessero. Quando raggiunse una delle sue bancarelle preferite, comprò una granita rossa che sapeva di frutto della passione, lamponi e panna tutti insieme. Cercava di stare sempre attento a dove faceva acquisti, perché al mercato c’erano caramelle e bibite in grado di rovinarti la vita per sempre, ma in realtà nessuno voleva correre rischi con il figlio di Johnny Rook. Lui aveva informazioni su tutti: se lo facevi arrabbiare, potevi star tranquillo che i tuoi segreti non sarebbero rimasti tali. Fece il giro dietro la strega con i gioielli incantati. Lei non aveva un banchetto: se ne stava seduta come al solito su un pareo fantasia, di quelli che potevi comprare per pochi spiccioli a Venice Beach. Quando lo vide avvicinarsi alzò lo sguardo. «Ciao, Wren!» la salutò lui. Dubitava che fosse il suo vero nome, ma al Mercato la chiamavano tutti così. «Ehi, bel ragazzo!» La strega si fece da parte per lasciargli spazio e, muovendosi, produsse un tintinnio di bracciali e cavigliere. «Cosa ti porta nella mia umile dimora?» Kit si mise accanto a lei sul pareo. Aveva i jeans consumati, con i buchi alle ginocchia. Gli sarebbe piaciuto poter tenere i soldi che suo padre gli aveva dato per comprarsi qualche vestito nuovo. «Il papà mi ha chiesto di cambiare due da cinquanta.» «Ssst!» Lei gli fece segno con la mano di abbassare la voce. «Qui c’è gente che per due banconote da cinquanta sarebbe pronta a tagliarti la gola spacciando il tuo sangue per fuoco di drago!» «Oh, non a me» rispose Kit, convinto. «Nessuno qui oserebbe mai toccarmi.» Si appoggiò all’indietro sulle mani. «A meno che non lo voglia, chiaro.» «E io che pensavo di aver finito gli amuleti dell’abbordaggio sfacciato…» «Ma sono io il tuo amuleto dell’abbordaggio sfacciato!» Kit sorrise a due passanti: un ragazzo alto e bello, con una ciocca bianca fra i capelli neri, e una brunetta con lo sguardo celato dietro a un paio di occhiali da sole. Lo ignorarono. Wren invece scattò sull’attenti alla vista dei due potenziali clienti subito dietro di loro: un uomo corpulento e una donna con i capelli castani raccolti in una coda che scendeva sulla schiena. «Amuleti di protezione?» propose in tono accattivante. «Con questi sarete al sicuro, garantito. Ce li ho anche d’oro e d’ottone, non soltanto d’argento.» La donna comprò un anello con una pietra di luna incastonata e poi se ne andò chiacchierando con il compagno. «Come facevi a sapere che erano lupi mannari?» chiese Kit a Wren. «Lo sguardo» gli disse lei. «I lupi mannari sono acquirenti compulsivi. E poi con gli occhi evitano automaticamente qualsiasi cosa d’argento.» Sospirò. «Sto facendo degli affaroni con gli amuleti di protezione da quando sono cominciati quegli omicidi.» «Quali omicidi?» Wren fece una smorfia. «Non so, una roba assurda che ha a che fare con la magia. Cadaveri tutti ricoperti di scritte in linguaggi demoniaci. Corpi bruciati, affogati, mani mozzate… Girano voci di tutti i tipi. Come hai fatto a non sentirne parlare? Non segui i pettegolezzi?» «No» disse Kit. «Non proprio.» Stava guardando la coppia di lupi mannari che si dirigeva verso l’estremità nord del mercato, dove si radunavano in genere i licantropi per comprare ciò di cui avevano bisogno: posate di legno e ferro, aconito strozzalupo, pantaloni della tuta a strappo (o così sperava). Sebbene il Mercato fosse inteso come luogo dove i Nascosti si mescolavano fra loro, le varie specie tendevano a formare dei gruppi. C’era la zona in cui si radunavano i vampiri per comprare sangue aromatizzato o cercare nuovi soggiogati tra quelli che avevano perso il loro padrone. C’erano i gazebi coperti di fiori e piante rampicanti sotto ai quali si muovevano leggiadre le fate, scambiandosi amuleti e sussurrandosi presagi; si tenevano in disparte, perché a loro era vietato commerciare come gli altri. Gli stregoni, rari e temuti, occupavano le bancarelle in fondo al Mercato, e ognuno di loro sfoggiava una caratteristica che ne rivelava l’origine demoniaca: chi aveva la coda, chi le ali e chi corna ricurve. Una volta Kit aveva intravisto uno stregone donna con la pelle tutta azzurra come un pesce. Poi c’erano quelli con la Vista, come lui e suo padre, gente comune ma in grado di vedere il Mondo delle Ombre, di guardare oltre gli incantesimi. Anche Wren era così: una strega autodidatta che aveva pagato uno stregone per farle un corso in incantesimi di base, però cercava di non farsi notare. In teoria gli umani non praticavano la magia, ma il mercato sommerso di chi la insegnava era molto florido. Si potevano fare bei soldi, purché non ti beccassero gli… «Shadowhunters» disse a un tratto Wren. «Come facevi a sapere che stavo pensando proprio a loro?» «Perché ce ne sono due laggiù. Guarda!» Girò il mento verso destra, lo sguardo all’erta. In realtà era come se tutto il Mercato si fosse irrigidito, e alcuni si erano messi all’opera per far sparire con nonchalance flaconi e scatole di pozioni o amuleti con i teschi. I djinn al guinzaglio si nascondevano dietro ai loro padroni. Le peri avevano smesso di danzare e ora stavano guardando gli Shadowhunters con espressioni fredde e dure sugli incantevoli visi. Erano in due, un ragazzo e una ragazza, sui diciassette o diciotto anni. Lui aveva i capelli rossi, era alto e con un fisico atletico; della sua compagna Kit non riusciva a vedere il viso, ma soltanto una cascata di capelli biondi che le arrivavano fino alla vita. Portava una spada assicurata alla schiena e camminava con quel genere di disinvoltura che non poteva essere frutto di una messinscena. Erano entrambi in tenuta da combattimento, una divisa di protezione nera che li contraddistingueva come Nephilim: in parte umani in parte angeli, signori incontrastati di ogni altra creatura soprannaturale sulla faccia della terra. Avevano gli Istituti, paragonabili a enormi stazioni di polizia, in quasi tutte le grandi città del mondo, da Rio a Baghdad, da Lahore a Los Angeles. La maggior parte degli Shadowhunters erano nati tali, ma avevano la capacità di trasformare gli umani per farli diventare come loro. E da quando avevano perso così tante vite nella Guerra Oscura, cercavano disperatamente di rimpolpare i loro ranghi: si diceva rapissero chiunque sotto i diciotto anni mostrasse anche la minima potenzialità di diventare Shadowhunter. In altre parole, chiunque avesse la Vista. «Stanno andando verso la bancarella di tuo padre» sussurrò Wren. Aveva ragione. Kit si irrigidì vedendo che sfilavano davanti ai venditori e puntavano dritto verso l’insegna con la scritta DA JOHNNY ROOK. «Alzati!» Wren era in piedi, e stava scuotendo Kit perché si sollevasse dal pareo. Quando si chinò per raccogliere la sua merce, lui notò un curioso disegno sul dorso della mano, un simbolo simile a linee d’acqua che correvano sotto una fiamma. Forse se l’era scarabocchiato da sola. «Devo andare.» «Per colpa degli Shadowhunters?» le chiese, sorpreso, tenendosi un passo indietro per permetterle di prendere le sue cose. «Ssst!» sibilò Wren, poi corse via facendo saltellare su e giù la sua vivace chioma. «Strano» mormorò Kit prima di incamminarsi verso la bancarella del genitore. Arrivò da un lato, a testa bassa e con le mani in tasca. Era piuttosto certo che suo padre gli avrebbe gridato contro se si fosse presentato di fronte agli Shadowhunters, considerate le voci sull’arruolamento forzato di tutti i mondani sotto i diciotto anni dotati di Vista, ma non poteva resistere alla tentazione di origliare. La ragazza bionda era piegata in avanti, con i gomiti appoggiati sul bancone di legno. «È un piacere rivederti, Rook» disse con un sorriso ammaliante. Kit pensò che fosse carina. Era più grande di lui, e il ragazzo che la accompagnava una montagna di muscoli. E poi era una Shadowhunter. Quindi era carina senza offrire speranze, ma pur sempre carina. Aveva le braccia nude, e dal gomito al polso le correva una cicatrice lunga e pallida. Tatuaggi neri, con le forme di strani simboli, le decoravano la pelle intrecciandosi. Uno faceva capolino dallo scollo a V della maglietta: erano rune, i Marchi magici che conferivano agli Shadowhunters il loro potere. Erano gli unici a poterle portare. Se venivano disegnate sulla pelle di una persona normale o di un Nascosto l’avrebbero condotto alla follia. «E questo chi è?» domandò Johnny Rook, indicando con un cenno del mento il ragazzo Shadowhunter. «Il famoso parabatai?» Kit osservò la coppia con rinnovato interesse. Chiunque conoscesse i Nephilim sapeva cosa fossero i parabatai: due Shadowhunters che si giuravano lealtà platonica in eterno, e che avrebbero sempre combattuto l’uno accanto all’altro. Jace Herondale e Clary Fairchild, i due Shadowhunters più famosi del mondo, avevano ciascuno il proprio parabatai. Persino lui lo sapeva. «No» rispose la ragazza, con voce strascicata, mentre prendeva un vasetto di vetro pieno di liquido verdastro dalla pila accanto alla cassa. In teoria doveva essere una pozione d’amore, ma Kit sapeva che diversi di quei vasetti contenevano solo acqua e colorante alimentare. «Questo non è esattamente un posto da Julian» aggiunse facendo guizzare lo sguardo attorno a sé. «Piacere, Cameron Ashdown.» La montagna di muscoli tese una mano e Johnny, perplesso, gliela strinse. Kit colse l’occasione per infilarsi dietro al bancone. «Il ragazzo di Emma.» A quella frase la bionda, che dunque doveva essere Emma, trasalì in maniera appena percettibile. Quel Cameron Ashdown poteva anche essere il suo attuale ragazzo, pensò Kit, ma sul fatto che lo sarebbe rimasto ancora a lungo… be’, non ci avrebbe scommesso. «Uh» fece Johnny, togliendo il vasetto dalle mani di Emma. «Quindi presumo tu sia qui per prendere quello che avevi lasciato.» Pescò dalla tasca quello che sembrava un brandello di stoffa rossa. Kit lo fissò. Cosa poteva esserci di così interessante in un quadrato di cotone? Emma si mise dritta sulla schiena. Ora sembrava impaziente. «Hai scoperto qualcosa?» «Se lo metti in lavatrice con un carico di bianchi, è sicuro che ti escono i calzini rosa.» Emma corrugò la fronte e agguantò la stoffa. «Dico sul serio. Tu non sai quanta gente ho dovuto corrompere per averlo. Sono stata nel Labirinto a Spirale. È un pezzo della maglietta che indossava mia madre quando è stata uccisa.» Johnny si schermì con una mano. «Lo so. Stavo solo…» «Non fare il sarcastico. Sarcasmo e battute sono compito mio. Il tuo è farti mettere sotto torchio per dare informazioni.» «O venire pagato» aggiunse Cameron Ashdown. «Anche essere ricompensati per dare informazioni va bene.» «Sentite, non posso aiutarvi» rispose il padre di Kit. «Qui non c’è magia. È solo un pezzo di cotone. Malridotto e impregnato di acqua di mare, ma pur sempre cotone.» L’espressione delusa che prese forma sul viso della ragazza fu intensa, inconfondibile. Non si sforzò di nasconderla mentre si infilava la stoffa in tasca. Kit non poté fare a meno di pensare che la capiva, e ne rimase sorpreso, visto che non si sarebbe mai immaginato di capire uno Shadowhunter. Emma lo guardò, neanche avesse parlato ad alta voce. «E così…» disse, con un improvviso guizzo negli occhi. «Tu hai la Vista proprio come il tuo vecchio, eh? Quanti anni hai?» Kit si pietrificò. Suo padre gli si mise subito di fronte, proteggendolo dallo sguardo di Emma. «Insomma, io pensavo che mi avresti chiesto degli omicidi che si stanno verificando. Sei rimasta indietro con le notizie, Carstairs?» A quanto pareva Wren aveva ragione, pensò Kit. Tutti sapevano di quei delitti. Lo capiva dalla nota di avvertimento nel tono di voce di suo padre che avrebbe dovuto tagliare la corda, ma era intrappolato dietro al bancone, senza vie di fuga. «Ho sentito delle voci su certi mondani morti» disse Emma. La maggior parte degli Shadowhunters utilizzava questo termine con grande disprezzo per definire i normali esseri umani. Emma sembrava semplicemente stanca. «E noi non facciamo indagini sui mondani che si uccidono tra loro. Quella è roba per la polizia.» «C’erano delle fate tra i morti» disse Johnny. «Diversi cadaveri erano di fata.» «Non possiamo indagare nemmeno su quelli» dichiarò Cameron. «Lo sai. La Pace Fredda ce lo vieta.» Kit udì un debolissimo mormorio provenire dalle bancarelle vicine: un rumore da cui capì di non essere l’unico a origliare. La Pace Fredda era una Legge Shadowhunter nata quasi cinque anni prima. Quasi non ricordava un’epoca precedente. E comunque la chiamavano “Legge”, ma in realtà era una punizione. Quando lui aveva dieci anni, una guerra aveva sconquassato l’universo di Nascosti e Shadowhunters. Uno di questi ultimi, Sebastian Morgenstern, si era rivoltato contro la propria gente: era andato di Istituto in Istituto ad attaccarne gli occupanti, in modo da poter controllare i loro corpi e costringerli a combattere per lui riunendosi in uno scellerato esercito di schiavi dalla mente ottenebrata. Quasi tutti gli Shadowhunters dell’Istituto di Los Angeles erano stati catturati o uccisi. A Kit era capitato di fare degli incubi in proposito, incubi di sangue che scorreva attraverso corridoi che non aveva mai visto, decorati con le rune dei Nephilim. Nel suo tentativo di annientare gli Shadowhunters, Sebastian era stato aiutato dal Popolo Fatato. Kit aveva studiato le fate a scuola: adorabili creaturine che vivevano tra gli alberi e indossavano copricapo floreali. Invece no, il Popolo Fatato non c’entrava niente con quella descrizione. I suoi membri potevano essere sirene, goblin e kelpie con denti di squalo, ma anche fate di ceto nobile che occupavano posizioni di rango elevato nelle proprie corti. Le fate di questo tipo erano creature alte, bellissime e terrificanti. Si dividevano in due corti: la Corte Seelie, un luogo pericoloso governato da una regina che nessuno vedeva da anni, e la Corte Unseelie, un oscuro luogo di inganno e magia nera governato da una specie di mostro uscito da una leggenda. Poiché le fate facevano parte dei Nascosti, e avevano giurato alleanza e lealtà agli Shadowhunters, il loro tradimento era stato un crimine imperdonabile. Gli Shadowhunters le avevano punite ferocemente con una misura radicale diventata nota come “Pace Fredda”: le avevano costrette a pagare ingenti somme, a ricostruire gli edifici degli Shadowhunters che erano andati distrutti, le avevano private dei loro eserciti e intimato agli altri Nascosti di non aiutarle mai. La punizione, in caso contrario, sarebbe stata molto severa. Quello delle fate era un popolo orgoglioso, antico e magico, o almeno così si diceva. Perché Kit le aveva sempre viste a pezzi, nient’altro. La maggioranza dei Nascosti e degli altri abitanti della zona d’ombra fra mondo dei mondani e mondo degli Shadowhunters non le detestava, né provava chissà quale rancore nei loro confronti. Ma, d’altra parte, nessuno aveva voglia di mettersi contro gli Shadowhunters. Vampiri, lupi mannari e stregoni stavano alla larga dalle fate, tranne che nei posti come il Mercato delle Ombre, dove il denaro era più importante delle Leggi. «Davvero?» disse Johnny. «E se ti dicessi che i corpi sono stati ritrovati coperti di scritte?» Emma alzò la testa di scatto. Aveva gli occhi castano scuro, quasi neri, sorprendenti su una pelle così chiara. «Che cosa hai detto?» «Mi hai sentito.» «Che genere di scritte? È lo stesso linguaggio trovato sul corpo dei miei genitori?» «Non so» rispose l’altro. «Così ho sentito dire. Però è sospetto come dettaglio, vero?» «Emma» disse Cameron, mettendola in guardia. «Al Conclave non piacerà.» Il Conclave era il governo degli Shadowhunters. E per quanto ne sapeva Kit, a quelli non piaceva niente. «Non m’importa» fece Emma. Kit notò che si era chiaramente dimenticata di lui: ora fissava suo padre con due occhi di fuoco. «Dimmi quello che c’è da sapere. Te ne do duecento.» «Bene, ma non ho così tante informazioni. In pratica pigliano qualcuno che, poche notti dopo, viene trovato morto.» «E l’ultima volta che hanno “pigliato” qualcuno?» chiese Cameron. «Due notti fa» rispose Johnny. Si vedeva che era convinto di meritarsi la sua ricompensa. «Probabilmente abbandoneranno il corpo domani notte. Non dovete fare altro che presentarvi e prendere chi lo scarica.» Emma incrociò le braccia al petto. «Allora perché non ci dici come fare?» Johnny soffiò aria fuori dal naso. «Corre voce che il prossimo corpo verrà scaricato a West Hollywood. Al Sepulchre Bar.» Emma batté le mani per l’entusiasmo. Il suo ragazzo la chiamò di nuovo per riportarla all’ordine, ma Kit non aveva dubbi che stesse solo perdendo tempo: non aveva mai visto, infatti, una ragazza tanto esaltata per qualcosa, nemmeno per un attore famoso, una boyband, un gioiello. E quella stava praticamente scoppiando d’emozione all’idea di un cadavere. «Perché non ci pensi tu, se questi omicidi ti interessano tanto?» domandò Cameron a Johnny. Kit trovava che i suoi occhi verdi fossero molto belli. Quei due formavano una coppia troppo attraente, davano quasi fastidio. Si chiese che aspetto avesse il mitico Julian… Se aveva giurato di essere il migliore amico platonico di quella ragazza per l’eternità, probabilmente era bello come un calcio sulle gengive. «Perché non voglio» rispose Johnny. «Mi sembra pericoloso. Ma a voi il pericolo piace, vero, Emma?» La ragazza sorrise. Kit pensò che suo padre dovesse conoscerla piuttosto bene. Si vedeva che doveva già essere passata da quelle parti prima di fare tutte quelle domande. Strano vederla solo ora per la prima volta… Però, in effetti, lui non partecipava sempre al Mercato. Mentre la guardava affondare una mano in tasca, estrarne un rotolo di banconote e porgerlo a suo padre, si chiese se fosse mai stata a casa loro. Ogni volta che riceveva dei clienti, Johnny lo costringeva a scendere nel seminterrato e a restarci, in silenzio. «Tratto con il genere di persone che tu non dovresti conoscere» si limitava a dirgli. Una volta si era avventurato al piano di sopra per sbaglio mentre suo padre era “in riunione” con un gruppo di mostri incappucciati. O almeno così gli erano sembrate quelle creature: avevano occhi e labbra cucite, teste pelate e lucenti. Suo padre gli aveva detto che erano Gregori, Fratelli Silenti – Shadowhunters sfregiati e torturati con la magia fino a diventare qualcosa di più di esseri umani; parlavano con la mente e riuscivano a leggere dentro a quella altrui. Dopo quell’episodio, non era mai più salito dal seminterrato mentre suo padre teneva uno dei suoi incontri. Kit sapeva che era un criminale. Sapeva che vendeva segreti per guadagnarsi da vivere, ma bugie no: Johnny si vantava di avere informazioni di prima scelta. E sapeva anche che, probabilmente, alla fine avrebbe seguito le sue stesse orme. Del resto era difficile vivere in maniera normale quando dovevi sempre fingere di non vedere cosa ti stava accadendo sotto il naso. «Bene, allora grazie per le informazioni» disse Emma, facendo per allontanarsi dalla bancarella. Kit vide l’elsa d’oro della sua spada scintillare e si domandò come fosse essere un Nephilim, vivere in mezzo a gente che vedeva le stesse cose che vedevi tu, non avere mai paura di cosa potesse annidarsi nell’ombra. «Ci si vede, Johnny.» Emma fece l’occhiolino a Kit. Suo padre si girò di scatto per guardarlo, ed Emma sparì in mezzo alla folla insieme al suo ragazzo. «Le hai detto qualcosa?» volle sapere Johnny. «Perché ti ha puntato a quel modo?» Kit alzò le mani in segno di resa. «Io non ho detto niente» si difese. «Avrà notato che stavo ascoltando.» Johnny fece un lungo sospiro. «Allora cerca di farti notare di meno.» Adesso che gli Shadowhunters se n’erano andati, il Mercato era tornato al solito fermento. Kit sentì della musica e un gorgoglio crescente di voci. «La conosci bene?» «Emma Carstairs? Be’, sono anni che viene da me. A quanto pare non le importa di infrangere le regole dei Nephilim. Mi piace, per quanto possa piacermi uno di loro.» «Vuole che scopri chi ha ucciso i suoi genitori.» Johnny aprì bruscamente un cassetto. «Non so chi sia stato, Kit. Probabilmente le fate. È successo durante la Guerra Oscura.» Parlava con un tono di superiorità. «Quindi volevo aiutarla. I soldi degli Shadowhunters non puzzano.» «E tu vuoi che loro si concentrino su qualcosa che non sei tu.» Era un’ipotesi, ma Kit sospettava che fosse fondata. «Stai nascondendo qualcosa?» Johnny chiuse il cassetto di scatto. «Forse.» «Per essere uno che vende segreti, ne hai parecchi, poco ma sicuro» commentò Kit infilandosi le mani in tasca.
Suo padre gli mise un braccio attorno alle spalle, in un raro gesto d'affetto.  «Il mio segreto più grande »  gli disse « sei tu.»

UN SEPOLCRO IN QUESTO REGNO
«No, non sta funzionando» disse Emma. «La storia, intendo.» Dall’altro capo del telefono giunsero dei suoni sconsolati. Emma riusciva a malapena a decifrarli: sul tetto del Sepulchre Bar la ricezione non era il massimo. Stava camminando sul bordo guardando in basso, verso il cortile centrale. Gli alberi di jacaranda erano decorati con fili di luci, mentre il giardino era disseminato di tavolini e sedie eleganti dallo stile ultramoderno. Giovani uomini e donne altrettanto eleganti e ultramoderni affollavano il locale: i calici di vino scintillavano nelle loro mani come bolle trasparenti riempite di rosso, bianco e rosa. Qualcuno aveva preso in affitto il bar per una festa privata: uno striscione luccicante pendeva tra due alberi e i camerieri si facevano largo tra la folla offrendo vassoi di stuzzichini. C’era qualcosa, in quello scenario così glamour, che faceva venire voglia a Emma di interromperlo calciando qualche tegola giù dal tetto o facendo una capriola sugli invitati. Peccato che, se ti comportavi così, il Conclave ti rinchiudeva per un bel po’ di tempo: i mondani non dovevano mai nemmeno intravedere gli Shadowhunters. E comunque, anche se fosse veramente piombata in cortile con un balzo, nessuno degli ospiti si sarebbe accorto di lei. Era ricoperta di rune, disegnate da Cristina, che la rendevano invisibile a chiunque non possedesse la Vista. Emma sospirò e si riportò il telefono all’orecchio. «Ok, la nostra storia» disse. «La nostra storia non sta funzionando.» «Emma!» la chiamò Cristina sussurrando forte dietro di lei. Emma si girò, con gli stivali in equilibro sul ciglio del tetto. Cristina era seduta sul pendio di tegole alle sue spalle, intenta a lucidare un coltello da lancio con un panno celeste abbinato ai nastri che impedivano ai capelli neri di ricaderle sul viso. Tutto, in Cristina, era ordinato e composto: con la sua tenuta nera da combattimento riusciva a sembrare carina e professionale come la maggior parte della gente sarebbe riuscita a esserlo solo in un elegante completo da ufficio. La sua medaglietta d’oro portafortuna le scintillava nell’incavo del collo e l’anello di famiglia, percorso da un intreccio di rose simbolo dei Rosales, le brillò sul dito quando depose il coltello accanto a sé, avvolto nel suo panno. «Emma, ricordati le frasi che ti sei preparata. In prima persona!» Cameron continuava a parlare a ruota libera all’altro capo del telefono, farneticando qualcosa a proposito di un incontro di chiarimento, che Emma sapeva sarebbe stato inutile. Lei si concentrò sulla scena sotto di sé: era un’ombra, quella che stava scivolando tra la folla, oppure si stava immaginando tutto? Forse era perché ci sperava troppo. Johnny Rook in genere era affidabile, e poi le era sembrato molto, molto sicuro su quella notte, ma lei odiava caricarsi e stare sulle spine per poi scoprire che non ci sarebbero state battaglie in cui sfogare tutta l’energia. «Qui si tratta di me, non di te» disse nel microfono. Cristina le fece i pollici in su per incoraggiarla. «E io sono stanca di te.» Fece un sorriso radioso mentre l’altra si prendeva il viso tra le mani. «Quindi cosa ne dici se torniamo a essere amici?» Si sentì un clic. Cameron aveva riattaccato. Emma si infilò il telefono in tasca e scrutò di nuovo la folla. Niente. Scocciata, si arrampicò su per il pendio del tetto per sedersi con un tonfo accanto a Cristina. «Be’, sarebbe potuta andare meglio» disse. «Tu credi?» Cristina si tolse le mani dal viso. «Che cosa è successo?» «Non lo so.» Emma sospirò e prese lo stilo, il raffinato strumento di scrittura fatto di adamas che gli Shadowhunters utilizzavano per tracciarsi rune di Protezione sulla pelle. Il suo aveva un’impugnatura intarsiata in osso di demone ed era un regalo di Jace Herondale, la sua prima cotta. La maggior parte degli Shadowhunters trattava gli stili come i mondani tenevano le matite, ma quello per lei era speciale, e lo custodiva con la stessa cura che dedicava alla spada. «Va sempre a finire così. Tutto ok, finché un mattino mi sveglio e basta il suono della sua voce a farmi venire la nausea.» Guardò Cristina con aria colpevole. «Ci ho provato» aggiunse. «Ho aspettato settimane! Ho continuato a sperare che le cose sarebbero migliorate. Ma non è successo.» Cristina le diede una pacca sul braccio. «Lo so, cuata» disse. «È solo che non sei molto brava ad avere…» «Tatto?» suggerì Emma. L’inglese di Cristina era quasi privo di accento, e a Emma capitava spesso di dimenticare che non fosse la sua prima lingua. D’altro canto, Cristina parlava sette lingue oltre al suo spagnolo. Lei invece parlava inglese, pochissimo spagnolo, greco e latino, sapeva leggere in tre linguaggi demoniaci e imprecare in cinque. «Stavo per dire “relazioni”» ribatté Cristina. Un guizzo le balenò negli occhi castano scuro. «Sono qui da due mesi appena e tu ti sei dimenticata ben tre appuntamenti con Cameron, oltre al suo compleanno, e ora lo hai mollato perché oggi è una serata di pattuglia poco movimentata.» «Voleva sempre giocare ai videogiochi. E io i videogiochi li odio.» «Nessuno è perfetto, Emma.» «Ma certe persone sono perfette l’una per l’altra. Non sei d’accordo?» Sul viso di Cristina comparve una strana espressione, ma sparì così in fretta che Emma fu sicura di essersela immaginata. A volte rifletteva sul fatto che, per quanto vicina potesse sentirsi a quella ragazza, in realtà non la conosceva. Non la conosceva come conosceva Jules, come conosci qualcuno con il quale hai condiviso ogni momento della tua vita da quando eravate bambini. Quello che era successo a Cristina in Messico – qualunque cosa l’avesse spinta a scappare a Los Angeles, lontano da famiglia e amici – era un argomento che non avevano mai affrontato. «Be’» fece Cristina. «Almeno sei stata abbastanza saggia da portarmi con te per ricevere supporto morale in questo momento così difficile.» Emma la punzecchiò con il suo stilo. «Non avevo in programma di mollare Cameron. Eravamo qui, lui mi ha chiamata, ho visto la sua faccia sullo schermo del telefono – o meglio, ho visto la foto di un lama, perché di sue non ne avevo e così ho scelto quella – e mi sono talmente arrabbiata che non sono riuscita a trattenermi.» «Brutto momento per essere un lama.» «Ma, diciamocelo, è mai un buon momento?» Emma rigirò la punta dello stilo verso di sé e iniziò a disegnarsi sul braccio una runa Sicuro nel Cammino. Si vantava di avere un equilibrio notevole anche senza rune, ma in cima a un tetto forse era meglio andare sul sicuro. Pensò a Julian, laggiù in Inghilterra, e provò una lieve fitta al cuore. Lui sarebbe stato felice di vedere che agiva con prudenza. Avrebbe detto in proposito qualcosa di spiritoso e adorabile per sminuirsi. Sentiva tremendamente la sua mancanza, ma forse era così che doveva essere quando si era parabatai, legati dalla magia e dall’amicizia. Tutti i Blackthorn le mancavano. Emma era cresciuta in mezzo a Julian e ai suoi fratelli, andando a vivere con loro all’età di dodici anni, quando lei aveva perso i genitori e Julian, già orfano di madre, aveva perso il padre. E così, da figlia unica era stata catapultata in una famiglia grande, chiassosa e irresistibile. Non erano state certo rose e fiori, però li adorava tutti, dalla timida Drusilla a Tiberius, appassionato di racconti polizieschi. All’inizio dell’estate erano partiti per andare a trovare una loro prozia nel Sussex: la famiglia Blackthorn era di origini britanniche. Marjorie, aveva spiegato Julian, aveva quasi cento anni e sarebbe potuta morire da un momento all’altro, quindi volevano rivederla il prima possibile. Era un dovere morale. E così erano partiti per due mesi, tutti tranne lo zio, il capo dell’Istituto. Per Emma era stato un vero trauma. L’Istituto era passato dal caos al silenzio. Peggio ancora, quando Julian non c’era, lei lo avvertiva fisicamente, come un disagio costante, un dolore sordo al petto. Uscire con Cameron non era servito, mentre l’arrivo di Cristina l’aveva aiutata moltissimo. Era normale, per gli Shadowhunters che compivano diciotto anni, andare in visita agli Istituti stranieri per imparare usi e costumi diversi dai propri. Cristina era venuta a Los Angeles da Città del Messico… Non che ci fosse niente di strano, però aveva sempre avuto l’aria di una che scappava da qualcosa. Lei, nel frattempo, stava fuggendo dalla solitudine. E così, nella loro fuga, si erano corse incontro, diventando migliori amiche più in fretta di quanto avrebbe mai potuto ritenere possibile. «Diana sarà contenta di sapere che hai lasciato Cameron, almeno» le disse Cristina. «Mi sa che non le piaceva molto.» Diana Wrayburn era la tutor della famiglia Blackthorn. Estremamente intelligente, estremamente severa, estremamente stanca di vedere Emma addormentarsi nel bel mezzo della lezione perché la sera prima era uscita. «Diana pensa solo che qualsiasi storia sia una distrazione dallo studio» ribatté Emma. «Perché frequentare qualcuno, quando potresti imparare un linguaggio demoniaco in più? Insomma, chi non vorrebbe sapere come si dice “Vieni spesso qui?” in purgatico?» Cristina scoppiò a ridere. «Mi sembri Jaime. Lui odiava studiare.» Emma drizzò le orecchie: capitava di rado che Cristina parlasse degli amici o dei parenti che aveva lasciato a Città del Messico. Sapeva che suo zio aveva gestito l’Istituto della capitale finché non era stato ucciso nella Guerra Oscura e quindi sostituito dalla madre di Cristina. Sapeva che suo padre era morto quando lei era piccola. Ma non sapeva molto altro. «Diego invece no. A lui piaceva un sacco. Studiava anche cose in più per puro divertimento.» «Diego? Il ragazzo perfetto? Quello che tua madre adora?» Emma riprese a passarsi lo stilo sulla pelle e a poco a poco la runa di Lunga Vista prese forma sul suo avambraccio. Le maniche della tenuta le arrivavano fino ai gomiti, e la sua pelle nuda era completamente segnata da pallide cicatrici di rune usate molto tempo prima. Cristina si sporse per toglierle lo stilo di mano. «Qua, lascia fare a me.» Continuò lei la runa di Lunga Vista: aveva una mano eccezionale, attenta e precisa. «Non voglio parlare di Diego il Perfetto» disse. «Ci pensa già abbastanza mia madre. Invece posso chiederti un’altra cosa?» Emma annuì. La pressione dello stilo contro la pelle era un contatto familiare, quasi piacevole. «So che volevi venire qui perché Johnny Rook ti ha detto che sono stati ritrovati dei corpi coperti di scritte, e lui crede che ne spunterà uno anche stanotte.» «Esatto.» «E tu speri che siano le stesse scritte di quelle che c’erano sulla pelle dei tuoi genitori.» Emma si irrigidì. Non poteva farne a meno. Qualsiasi vago accenno all’uccisione dei suoi genitori bruciava come se fosse successa il giorno prima, e questo anche se a parlarne era una persona gentile come Cristina. «Sì.» «Il Conclave sostiene che sia stato Sebastian Morgenstern a ucciderli. È quello che mi ha detto Diana. È quello che credono loro. Ma non tu, vero?» Il Conclave. Emma lasciò spaziare lo sguardo sulla notte di Los Angeles, verso la luccicante esplosione elettrica dello skyline e di Sunset Boulevard, con le sue file ininterrotte di cartelloni pubblicitari. Le era parsa una parola innocua, “Conclave”, la prima volta che l’aveva pronunciata. Il Conclave non era altro che il governo dei Nephilim, composto da tutti gli Shadowhunters attivi maggiori di diciotto anni. In teoria ogni Shadowhunter aveva un voto a disposizione e la stessa voce in capitolo degli altri. In pratica, alcuni Shadowhunters erano più influenti di altri: come in qualsiasi partito politico, anche nel Conclave c’erano corruzione e pregiudizi. Per i Nephilim ciò significava un rigoroso codice d’onore e regole alle quali tutti dovevano aderire, pena conseguenze terribili. Il Conclave aveva anche un motto: la Legge è dura, ma è pur sempre la Legge. E non c’era Shadowhunter che non ne conoscesse il significato. Le regole della Legge del Conclave dovevano essere rispettate, a prescindere da quanto fosse difficile o doloroso. La Legge era al di sopra di qualunque altra cosa: necessità, sofferenze, perdite, ingiustizie e slealtà personali. Era la Legge. Quando il Conclave aveva chiesto a Emma di accettare il fatto che i suoi genitori fossero stati assassinati nel corso della Guerra Oscura, il loro era stato un ordine. Lei non lo aveva eseguito. «No, infatti» rispose lentamente. «Non ci credo.» Cristina se ne stava seduta con lo stilo immobile nella mano, senza aver completato la runa. L’adamas splendeva al chiaro di luna. «Ti va di dirmi perché?» «Sebastian Morgenstern stava formando un esercito» spiegò Emma, con lo sguardo ancora fisso sul mare di luci. «Prendeva gli Shadowhunters e li trasformava in mostri al suo servizio. Non riempiva la loro pelle di scritte in linguaggio demoniaco per poi buttarli nell’oceano. Quando i Nephilim hanno provato a spostarli, i cadaveri dei miei genitori si sono dissolti. Una cosa che con le vittime di Sebastian non era mai successa.» Fece scorrere un dito lungo una tegola del tetto. «E poi… è una sensazione. Non di quelle passeggere. Ne sono convinta da sempre, e ci credo di più ogni giorno che passa. Le morti dei miei genitori sono state diverse. E il fatto che loro diano la colpa a Sebastian vuol dire che…» Si interruppe per sospirare. «Scusa, sto parlando a vanvera. Senti, vedrai che non ne verrà fuori niente. Non ti preoccupare.» «Io mi preoccupo per te» disse Cristina, ma subito riappoggiò lo stilo sulla pelle dell’amica e completò la runa senza aggiungere una parola. Era una caratteristica che Emma aveva apprezzato in lei sin dal primo momento in cui aveva conosciuto quella ragazza: Cristina non insisteva e non ti metteva mai sotto pressione. Abbassò lo sguardo, ammirata, mentre la sua amica si rimetteva seduta dopo aver concluso l’opera. Ora sul braccio le luccicava, nitida, la runa della Lunga Vista. «L’unica persona che conosco capace di disegnare rune migliori è Julian» disse. «Ma lui è un artista…» «Julian, Julian, Julian» le fece eco Cristina per prenderla in giro. «Julian è un pittore, Julian è un genio, Julian saprebbe sistemarlo, Julian saprebbe costruirlo. Sai, nelle ultime sette settimane ho sentito così tante cose strepitose su quel ragazzo che, quando lo incontrerò, finirò per innamorarmi di lui all’istante.» Emma si sfregò con cura le mani ruvide lungo le gambe. Sentiva di essere tesa, una corda di violino. Si era caricata mentalmente per affrontare una battaglia e adesso invece nulla di fatto, pensò. Non c’era da stupirsi se avesse voglia di guizzare fuori dalla propria pelle. «Non credo sia il tuo tipo» ribatté. «Ma è il mio parabatai, quindi non sono obiettiva.» Cristina le restituì lo stilo. «Ho sempre voluto un parabatai» disse, un po’ malinconica. «Qualcuno votato a proteggerti e a guardarti le spalle. Un miglior amico per sempre, per tutta la vita.» Un miglior amico per sempre, per tutta la vita. Quando i genitori di Emma erano morti, lei aveva lottato per stare con i Blackthorn. Un po’ perché aveva perso tutto ciò che le era familiare e non sopportava l’idea di dover ricominciare da capo, un po’ perché voleva rimanere a Los Angeles per poter investigare sull’uccisione dei suoi. Sarebbe potuto uscirne qualcosa di strano; si sarebbe potuta sentire, unica Carstairs in una casa di Blackthorn, fuori posto in quella situazione. Invece no, mai, grazie a Jules. Il legame parabatai era più di un’amicizia, più di una famiglia: era un vincolo potente che ti univa in un modo che tutti gli Shadowhunters rispettavano e riconoscevano quanto il matrimonio. Nessuno avrebbe separato due parabatai. Nessuno avrebbe mai osato: insieme, i parabatai erano più forti. Lottavano fianco a fianco come se potessero entrare l’uno nella mente dell’altro. Una singola runa fatta dal parabatai era più potente di dieci rune fatte da chiunque altro. E spesso succedeva che chiedessero che le loro ceneri venissero tumulate nella stessa tomba, così da non essere divisi nemmeno nella morte. Non tutti avevano un parabatai, anzi, era qualcosa di piuttosto raro. Un impegno vincolante, lungo una vita intera. Giuravi di rimanere al fianco dell’altra persona, giuravi di proteggerla sempre, di andare dove andava lei, di considerare come tua la sua famiglia. Le parole del giuramento erano antiche, tratte dalla Bibbia: Dove andrai tu, andrò anch’io… Il mio popolo sarà il tuo popolo… Dove morirai tu, morirò anch’io e vi sarò sepolto. Emma pensò che, volendo trovare un’espressione comune per esprimere lo stesso concetto, avrebbe potuto usare “anima gemella”. Un’anima gemella in senso platonico, perché non erano permessi coinvolgimenti amorosi con il proprio parabatai. Come molte altre cose, anche quella sarebbe stata un’infrazione alla Legge. Non aveva mai capito perché, visto che in fondo era priva di senso, ma del resto gran parte della Legge non ne aveva. Così come, per esempio, che il Conclave avesse esiliato e abbandonato i fratellastri di Julian, Helen e Mark, soltanto perché la loro madre era una fata: eppure lo avevano fatto lo stesso, dopo la proclamazione della Pace Fredda. Si alzò in piedi, facendo scivolare lo stilo nella cintura delle armi. «Be’, i Blackthorn arrivano dopodomani. Tra poco lo conoscerai.» Raggiunse di nuovo il ciglio del tetto, e questa volta sentì un rumore di stivali sulle tegole che le annunciò la presenza di Cristina dietro di sé. «Vedi qualcosa?» «Forse non sta succedendo niente di strano.» Cristina fece spallucce. «Forse è solo una festa.» «Eppure Johnny Rook era sicurissimo…» mormorò Emma. «Ma Diana non ti aveva espressamente vietato di andare da lui?» «Ok, forse mi ha detto di smetterla di vederlo» ammise la ragazza. «E forse lo ha anche definito “un criminale che commette crimini”, espressione che, devo ammetterlo, mi è sembrata un po’ forte, però non ha detto che non potevo andare al Mercato delle Ombre.» «Perché lo sanno già tutti che gli Shadowhunters, al Mercato delle Ombre, non ci devono andare.» Emma ignorò il commento. «E se avessi incontrato per caso Rook, supponiamo al Mercato, e lui mi avesse detto delle cose mentre chiacchieravamo del più e del meno, e poi io gli avessi accidentalmente lasciato cadere dei soldi in mano? Chi potrebbe definirlo “pagare per ricevere informazioni”? Si tratterebbe di due amici e basta, uno sbadato con i pettegolezzi, l’altra sbadata con le finanze…» «Non è questo lo spirito della Legge, Emma. Ricordi? La Legge è dura, ma è pur sempre la Legge.» «Pensavo fosse: “La Legge è irritante, ma anche elastica”.» «Non è quello il motto. E Diana ti ammazzerà.» «Non se risolviamo gli omicidi. Il fine giustificherà i mezzi. E se non succede niente, non dovrà mai venire a saperlo. Giusto?» Cristina non rispose. «Ehi, giusto?» le chiese di nuovo Emma. L’altra inspirò profondamente. «Hai visto?» domandò, puntando un dito. Emma aveva visto. Un uomo alto e affascinante, con i capelli corti, la carnagione pallida e i vestiti di taglio sartoriale si stava muovendo tra la folla. Quando passava, uomini e donne si giravano per guardarlo, con l’espressione rapita. «È coperto da un incantesimo» disse Cristina. Emma inarcò un sopracciglio. Gli incantesimi erano magia illusoria, e venivano normalmente utilizzati dai Nascosti per celarsi agli occhi dei mondani. Anche gli Shadowhunters potevano utilizzare Marchi che avevano più o meno lo stesso effetto, benché i Nephilim non la considerassero magia. La magia era roba da stregoni; le rune erano un dono dell’Angelo. «La questione è: vampiro o fata?» Emma esitò. L’uomo si stava avvicinando a una giovane donna che svettava su un paio di tacchi esagerati e teneva in mano una coppa di champagne. Quando le parlò, il suo viso divenne assente. Annuendo con fare disponibile, si portò le mani dietro al collo e slacciò la pesante collana d’oro che indossava. La lasciò cadere dentro la mano aperta dello sconosciuto, sorridendogli mentre lui se la faceva scivolare in tasca. «Fata» sentenziò Emma portandosi una mano alla cintura delle armi. Le fate rendevano tutto più complicato. Erano creature off limits, una razza di Nascosti maledetta e proibita da quando la Pace Fredda l’aveva spogliata di ogni diritto, esercito e avere. Le antiche terre che possedevano un tempo non erano più considerate loro, e altri Nascosti litigavano su chi potesse rivendicarle. Cercare di placare quegli scontri costituiva buona parte del lavoro dell’Istituto di Los Angeles, però erano cose da adulti. Gli Shadowhunters dell’età di Emma non potevano interagire direttamente con le fate. La Legge è irritante, ma anche elastica. Estrasse da una sacca che teneva agganciata alla cintura una bustina chiusa da un laccio. Iniziò ad aprila mentre la fata si allontanava dalla donna sorridente per raggiungere un signore elegante in giacca nera, il quale consegnò di buon grado gli scintillanti gemelli della sua camicia. Ora ci mancava poco che la fata si trovasse esattamente sotto il punto in cui erano lei e Cristina. «Ai vampiri l’oro non interessa, mentre il Popolo Fatato rende omaggio al proprio Re e alla propria Regina con oro, gemme e altri preziosi.» «Ho sentito dire che la Corte Unseelie lo versa in sangue umano» disse Cristina, tetra. «Non stasera» ribatté Emma rovesciando il contenuto del sacchettino giù dal tetto, in testa alla fata. Cristina trasalì per l’orrore: la fata sotto di loro aveva lanciato un urlo straziante e l’incantesimo le si stava staccando di dosso come la pelle di un serpente che faceva la muta. Al rivelarsi del vero aspetto della creatura, dalla folla si levò un coro di grida. In fronte le spuntarono rami che sembravano corna ritorte e la pelle diventò verde scuro come muschio o muffa, tutta crepata come corteccia. Al posto delle mani aveva delle specie di artigli spatolati a tre dita. «Emma» la mise in guardia Cristina. «Dovremmo fermarlo… Chiamare i Fratelli Silenti…» Ma Emma era già saltata giù. Per un momento fu senza peso, in caduta libera nell’aria. Poi toccò terra, con le ginocchia piegate come le avevano insegnato. Ricordava bene quei primi salti da grandi altezze, le cadute brusche e goffe, i giorni passati ad attendere la guarigione prima di poter fare un nuovo tentativo. Si rimise in piedi, faccia a faccia con la fata in mezzo alla folla che correva spaventata. Gli occhi della creatura, luccicanti su quel volto legnoso, erano gialli come quelli di un gatto. «Shadowhunter…» le sibilò contro. Gli invitati continuavano a fuggire dal cortile attraverso i cancelli che davano sul parcheggio. Nessuno di loro vedeva Emma, eppure l’istinto faceva sì che la aggirassero come acqua attorno ai piloni di un ponte. La ragazza alzò il braccio dietro alla spalla e richiuse le dita della mano attorno all’elsa della sua spada, Cortana. Quando la sguainò, puntandola dritta contro la fata, la lama sprigionò un bagliore dorato. «No, ma quale Shadowhunter. Mi hanno mandata qui per farti una serenata. E questo è il mio costume di scena.» La fata parve perplessa. Emma sospirò. «Com’è difficile fare battute con voi del Popolo Fatato. Non le capite mai!» «Invece siamo molto conosciuti per arguzie, facezie e ballate» rispose la creatura, chiaramente offesa. «Alcune delle nostre ballate si tramandano per settimane.» «Non ho tutto quel tempo» disse Emma. «Sono una Shadowhunter. E il mio motto è: “Fai battute ogni giorno come se fosse l’ultimo”.» Girò e rigirò la punta di Cortana con impazienza. «Adesso svuota le tasche.» «Non ho fatto niente che infranga la Pace Fredda» protestò la fata. «Tecnicamente hai ragione, ma i furti ai danni dei mondani non ci piacciono molto. Svuota le tasche, altrimenti ti strappo un corno e te lo infilo dove non batte il sole.» La creatura non capì. «Dove non batte il sole? Cos’è, un indovinello?» Emma sospirò ancora, esasperata, e alzò Cortana. «Svuotale, altrimenti inizio a staccarti la corteccia di dosso. Mi sono appena lasciata con il mio ragazzo, quindi non sono esattamente di buonumore.» La fata iniziò a depositare lentamente il contenuto delle proprie tasche a terra, senza però smettere di fissare Emma. «E così adesso sei single. Sai che sorpresa!» Dall’alto si sentì un sussulto. «Questa però è vera maleducazione» intervenne Cristina, sporgendosi oltre il bordo del tetto. «Grazie, Cristina. È stato un colpo basso. Ma per tua informazione, mia cara fata, sono stata io a lasciare lui!» La creatura fece spallucce. Fu un gesto notevolmente espressivo, che riuscì a trasmettere diversi tipi di indifferenza allo stesso tempo. «Anche se non so perché» commentò Cristina. «Lui era molto carino.» Emma fece roteare lo sguardo. La fata stava ancora scaricando il bottino: orecchini, preziosi portafogli in pelle, anelli di diamanti rotolavano a terra in una cacofonia luccicante. Ma a lei in realtà non importavano i gioielli o il furto: era più interessata a riconoscere armi, libri d’incantesimi, qualsiasi segno della magia nera legata ai segni sul corpo dei suoi genitori. «Gli Ashdown e i Carstairs non vanno d’accordo» disse. «È un fatto risaputo.» A quella frase, la fata sembrò rimanere di ghiaccio. «Carstairs» ripeté con disprezzo, tenendo lo sguardo giallo fisso su Emma. «Tu sei Emma Carstairs?» Emma batté le palpebre, colta alla sprovvista. Alzò la testa: Cristina era sparita dal ciglio del tetto. «Non credo che ci siamo mai conosciuti. Mi ricorderei di un albero parlante.» «Davvero?» Le mani spatolate si contorcevano lungo i fianchi della fata. «Mi sarei aspettato un trattamento più cortese. Oppure tu e i tuoi amici dell’Istituto vi siete già dimenticati di Mark Blackthorn?» «Mark?» Emma, incapace di mostrarsi indifferente, restò come pietrificata. E proprio in quel momento vide qualcosa di luccicante precipitare verso il suo viso: la fata le aveva scagliato contro una collana di diamanti. Aveva fatto in tempo a piegarsi, ma il gioiello l’aveva comunque presa di striscio sulla guancia. Sentì un dolore pungente e il calore del sangue. Si rimise subito dritta, ma nel frattempo la fata era sparita. Imprecò, asciugandosi il sangue sul viso. «Emma!» Era Cristina, nel frattempo scesa dal tetto e ora ferma accanto a una porta sbarrata. Un’uscita d’emergenza. «È passato di qui!» Emma saettò verso l’amica e insieme aprirono la porta con un calcio, ritrovandosi nel vicolo sul retro del locale. Era sorprendentemente buio; qualcuno aveva mandato in frantumi i lampioni della zona. I cassonetti dell’immondizia addossati al muro puzzavano di cibo marcio e alcol. Emma sentì bruciare la runa della Lunga Vista. Proprio in fondo al vicolo, riconobbe la sagoma snella della fata che accelerava verso sinistra. Partì all’inseguimento, con Cristina al suo fianco. Aveva passato così tanto tempo a correre con Julian che le veniva difficile adattare il passo a chiunque altro; fece uno scatto in avanti, correndo al massimo delle forze. Purtroppo le fate erano note per la loro velocità. Svoltò l’angolo con Cristina, dove la strada si stringeva. La fata in fuga aveva avvicinato due cassonetti per bloccare loro la via. Emma allora prese lo slancio per saltare e, facendo risuonare il metallo sotto gli stivali, li usò come trampolino per volteggiare in avanti. Cadde e atterrò su qualcosa di morbido. Sotto le unghie sentì qualcosa che sembrava stoffa… Vestiti? Sì, vestiti indosso a un corpo umano. Vestiti bagnati. Il fetore di acqua di mare e decomposizione aleggiava ovunque. Abbassò lo sguardo e si ritrovò faccia a faccia con il viso gonfio di un cadavere. Dovette sforzarsi per non urlare. Un secondo dopo ci fu un altro rumore metallico e Cristina atterrò accanto a lei. Emma la udì sussurrare un’esclamazione di stupore in spagnolo, poi sentì attorno a sé le sue braccia che la tiravano via dal corpo. Finì sull’asfalto, goffamente, incapace di distogliere lo sguardo da quella scena raccapricciante. Era senza dubbio un umano. Un uomo di mezza età, con le spalle ricurve, i capelli grigio argento portati come la criniera di un leone. Aveva la pelle bruciata a chiazze rosse e nere, con grosse vesciche nei punti dove le ustioni erano più gravi; sembravano bolle di schiuma su una saponetta. La camicia grigia era strappata, e su petto e braccia correvano file di rune nere, non quelle degli Shadowhunters bensì frutto di una contorta scrittura demoniaca. Erano rune che Emma conosceva bene quanto le cicatrici sulle proprie mani. Le aveva osservate, in fotografia, per cinque lunghi anni. Erano i segni che il Conclave aveva trovato sui cadaveri dei suoi genitori. «Stai bene?» le chiese Cristina. Sorreggendosi al muro di mattoni del vicolo, che emanava un odore alquanto discutibile ed era ricoperto di vernice spray, Emma stava lanciando sguardi di fuoco al cadavere del mondano e ai Fratelli Silenti che lo circondavano. Come prima cosa subito dopo aver riacquistato la lucidità, aveva chiamato i Fratelli Silenti e Diana, ma ora si stava pentendo di quella decisione. I Fratelli erano arrivati all’istante e avevano circondato il corpo, parlandosi di tanto in tanto con le loro voci mute mentre ispezionavano, esaminavano, prendevano appunti. Avevano usato delle rune di Difesa per darsi il tempo di lavorare prima dell’arrivo della polizia, ma – con garbo e fermezza, usando solo una scarsa dose di forza telepatica – avevano impedito a Emma di avvicinarsi anche solo un po’ al cadavere. «Sono furibonda!» esclamò Emma. «Io devo vedere quei segni. Devo fotografarli. Sono i miei genitori a essere stati uccisi. Ma ai Fratelli Silenti cosa importa? Ho conosciuto solo uno di loro che fosse in gamba, e ha lasciato l’ordine.» Gli occhi di Cristina si spalancarono. Emma non sapeva come, ma la sua amica era riuscita a rimanere perfettamente pulita, aveva un aspetto fresco e le guance rosa. Lei invece, con i capelli che andavano da tutte le parti e i vestiti sporchi d’immondizia, doveva sembrare davvero una strega orripilante. I Fratelli Silenti erano Shadowhunters che avevano scelto di ritirarsi dal mondo, come monaci, e dedicarsi allo studio e alla guarigione. Vivevano nella Città Silente, le grandi caverne sotterranee dove veniva seppellita la maggioranza degli Shadowhunters dopo la morte. Le loro spaventose cicatrici erano il risultato di rune troppo potenti per gran parte delle carni umane, persino per quelle degli Shadowhunters, ma erano anche quelle che li rendevano praticamente immortali. Erano consiglieri, archivisti e guaritori, e potevano anche esercitare il potere della Spada Mortale. Erano stati loro a celebrare la cerimonia parabatai fra Emma e Julian. Presenziavano ai matrimoni, alla nascita dei bambini Nephilim, alla loro morte. Tutti gli eventi importanti della vita di uno Shadowhunter, insomma, erano contraddistinti dalla presenza di un Fratello Silente. Emma pensò all’unico fra loro che le fosse mai piaciuto. Sentiva la sua mancanza, a volte. All’improvviso il vicolo si illuminò a giorno. Emma batté le palpebre e, voltandosi, vide arrivare un pick-up che le era familiare. Il veicolo si fermò, con i fari ancora accesi, e dal sedile del guidatore scese Diana Wrayburn. Quando Diana era andata a lavorare all’Istituto di Los Angeles, cinque anni prima, in qualità di tutor per i ragazzi, Emma aveva pensato che fosse la donna più bella che avesse mai visto. Era alta, magra ed elegante, con il tatuaggio argentato di una carpa che le risaltava sulla pelle scura di uno zigomo pronunciato. Aveva gli occhi castani punteggiati da pagliuzze verdi, occhi che in quell’esatto momento stavano divampando. Indossava un vestito nero lungo fino alle caviglie che le fasciava il corpo longilineo in sinuosi drappeggi. Nell’insieme sembrava proprio la temibile dea romana della caccia da cui prendeva il nome. «Emma! Cristina!» corse verso di loro. «Che cosa è successo? State bene?» Per un attimo Emma smise di fissare la scena e si godette il potente abbraccio di Diana. Era sempre stata troppo giovane per poterla considerare una madre, ma una sorella maggiore forse sì. Una figura protettiva. Diana la lasciò andare e abbracciò anche Cristina, che parve stupita da quel gesto. Emma nutriva da molto tempo il sospetto che, in casa della sua amica, gli abbracci non fossero all’ordine del giorno. «Che cosa è successo? Emma, perché stai letteralmente cercando di bucare con gli occhi Fratello Enoch?» «Eravamo di pattuglia…» accennò lei. «Abbiamo visto una fata che derubava degli umani» si affrettò ad aggiungere Cristina. «Sì, e io l’ho fermata per dirle di svuotare le tasche…» «Una fata?» Sul viso di Diana scese un velo d’inquietudine. «Emma, lo sai che non devi affrontare i membri del Popolo Fatato, nemmeno con Cristina al tuo fianco…» «Ho già combattuto contro di loro» protestò lei. Ed era vero: Emma e Diana avevano combattuto ad Alicante quando l’esercito oscuro di Sebastian aveva sferrato il suo attacco. Le strade erano colme di guerrieri delle fate. Gli adulti avevano preso i bambini e li avevano rinchiusi nella Sala degli Accordi, dove avrebbero dovuto stare al sicuro. Invece le fate avevano forzato le serrature… Diana c’era, ed era corsa a destra e a sinistra con la sua spada per salvare decine e decine di bambini. Emma era stata una di quelli che ce l’avevano fatta. Da allora, le voleva bene. «Avevo la sensazione che stesse per succedere qualcosa di più grande e di ben peggiore» le disse. «Ho seguito la fata quando è scappata di corsa. So che non avrei dovuto, ma… ho trovato quel cadavere. Ed è ricoperto dalle stesse rune che c’erano sui corpi dei miei genitori. Sono gli stessi segni, Diana.» La donna si rivolse a Cristina. «Tina, per favore, potresti lasciarci sole un attimo?» Cristina esitò. Tuttavia, in quanto ospite dell’Istituto di Los Angeles e giovane Shadowhunter in permesso, era tenuta a fare quello che i membri più anziani le chiedevano. Lanciò uno sguardo a Emma e si voltò verso il punto dove ancora giaceva il cadavere. Era circondato da una schiera di Fratelli Silenti, uno stormo di uccelli pallidi nelle loro vesti pergamena. Stavano cospargendo i segni di polvere scintillante, o almeno così sembrava. Emma avrebbe voluto essere più vicina per vedere meglio. Diana sospirò. «Emma, ne sei sicura?» La ragazza si morse la lingua per non risponderle male. Capiva perché Diana glielo stesse chiedendo. Nel corso degli anni c’era stata una serie infinita di piste sbagliate: tante volte aveva pensato di aver trovato un indizio, la traduzione dei segni o una storia interessante su un giornale mondano. E ogni volta si era sbagliata. «È solo che non voglio che tu ti illuda» le disse la tutor. «Lo so. Ma non posso far finta di niente. E tu mi credi. Tu mi hai sempre creduto, vero?» «A proposito del fatto che non sia stato Sebastian Morgenstern a uccidere i tuoi genitori? Oh, tesoro, certo, lo sai che ti credo.» Diana diede a Emma una leggera carezza sulla spalla. «Solo non voglio che tu soffra, e senza Julian qui…» Emma aspettò che finisse la frase. «Ecco, ora che Julian non è qui tu sei più vulnerabile. I parabatai si sostengono a vicenda. Io so che sei forte, perché lo sei, ma questa è una cosa che ti ha ferito profondamente quando eri appena una bambina. È la Emma dodicenne quella che reagisce a qualsiasi cosa possa avere a che fare con i suoi genitori, non la Emma quasi adulta.» Diana sussultò e le accarezzò la testa. «Fratello Enoch mi sta chiamando» disse. I Fratelli Silenti erano capaci di comunicare con gli Shadowhunters facendo ricorso alla telepatia e in caso di necessità erano in grado di comunicare anche ai gruppi. «Ce la fai a tornare in Istituto?» «Sì, ma se potessi rivedere un secondo quel corpo…» «I Fratelli Silenti dicono di no» affermò Diana, risoluta. «Facciamo che io cerco di scoprire il possibile e poi ne parlo con te, ci stai?» Emma annuì a malincuore. «Ci sto.» Diana si diresse verso i Fratelli Silenti fermandosi a parlare un attimo con Cristina. Quando Emma ebbe raggiunto il pick-up parcheggiato, Cristina era già al suo fianco, e insieme salirono a bordo in silenzio. Emma rimase seduta inerte per un istante, esausta, con le chiavi della macchina che le penzolavano dalla mano. Nello specchietto retrovisore vedeva la stradina alle loro spalle, illuminata come uno stadio da baseball dai potenti fari del veicolo. Diana si stava muovendo tra i Fratelli nelle loro vesti pergamena. La polvere a terra era bianca nel riverbero delle luci. «Tutto bene?» chiese Cristina. Emma si girò verso di lei. «Devi dirmi cosa hai visto» la pregò. «Tu eri vicina al cadavere. Hai sentito Diana che diceva qualcosa ai Fratelli? Si tratta sicuramente degli stessi segni?» «Non devo dirtelo» rispose l’altra. «Cristina…» Emma si interruppe. Era disperata. Aveva mandato a monte tutto il piano per quella notte, lasciato scappare la fata ladra, perso l’occasione di poter esaminare il cadavere e forse anche urtato i sentimenti di Cristina. «So che non sei tenuta a dirmi niente. Ma mi dispiace davvero. Non volevo metterti nei guai. È solo che…» «Non intendevo quello.» Cristina rovistò dentro la tasca della sua tenuta. «Non devo dirtelo perché posso fartelo vedere con i tuoi occhi. Qua, guarda queste.» Le allungò il cellulare, ed Emma sentì il cuore che le faceva un balzo dentro al petto: l’amica le stava mostrando, una dopo l’altra, le foto scattate al cadavere circondato dai Fratelli. Al vicolo. Al sangue. Tutto! «Cristina, io ti amo!» esultò. «Io ti sposo. Io-ti-spo-so!» L’amica si mise a ridacchiare. «Mia madre ha già scelto chi dovrò sposare, ricordi? Pensa a come la prenderebbe, se portassi a casa te!» «Dici che non preferirebbe me a Diego il Perfetto?» «Dico che la sentiresti gridare fino a Idris.» Idris era la patria degli Shadowhunters, il luogo della loro creazione, la sede del Conclave. Era nascosta al confine tra Francia, Germania e Svizzera, protetta agli occhi degli umani da una serie di incantesimi. La Guerra Oscura aveva messo a ferro e fuoco la sua capitale, Alicante, ancora in fase di ricostruzione. Emma rise. Iniziava a sentirsi sollevata. Dopotutto, qualcosa in mano ce l’avevano. Un indizio, come avrebbe detto Tiberius alzando il naso da uno dei suoi romanzi gialli. All’improvviso sentì la sua mancanza, e mise in moto la macchina. «Ma davvero ci hai tenuto a precisare a quella fata che sei stata tu a rompere con Cameron e non viceversa?» le domandò Cristina. «Ti prego, non parliamone. Non ne vado fiera.» L’altra sbuffò. Era stato un gesto decisamente indegno di una signora. «Quando arriviamo all’Istituto puoi venire in camera mia?» le chiese Emma accendendo i fanali. «Voglio farti vedere una cosa.» Cristina fece una smorfia preoccupata. «Non si tratta, vero, di una strana voglia sulla pelle o di una verruca, vero? Una volta la mia abuela mi aveva detto che voleva farmi vedere una cosa, e alla fine era una verruca sul…» «Non è una verruca!» Mentre Emma si immetteva nel traffico, percepì il brivido dell’impazienza scorrerle nelle vene. Di solito dopo un combattimento si sentiva esausta, scarica di adrenalina. Ora, invece, stava per mostrare a Cristina qualcosa che nessuno tranne Julian aveva mai visto. Qualcosa di cui nemmeno lei andava esattamente fiera. Non poteva fare a meno di chiedersi come l’avrebbe presa l’amica. 

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