Estratto: Sei in ogni mio respiro - Jessica Park




Trama: La vita di Blythe McGuire è ormai da troppo tempo un vortice di pensieri, panico, depressione e apatia. Da quattro anni, per l'esattezza. Da quando un terribile incendio ha portato via i suoi genitori.
Per Blythe, quella ferita brucia ancora, oggi come ieri. Ed è impossibile separare i ricordi dal dolore. Un dolore devastante che le toglie il respiro. Come se, ogni giorno, fosse sul punto di affogare e dovesse lottare per non andare a fondo. 
E ora, all'ultimo anno di college, è stanca, senza più voglia di combattere.
Poi, però, qualcosa cambia. Succede quando il suo sguardo incontra quello di Chris Shepherd.
Chris la trascina fuori dal torpore che l'avvolge. Si insinua in quella piccola parte di lei che ancora insegue la speranza. Il piacere. E la riporta alla vita. 
Blythe, seppure con qualche esitazione, comincia ad amarlo. 
Ma non appena le acque si fanno più calme, si accorge che lo stesso Chris è intrappolato nel proprio passato. Un passato che potrebbe essere più complicato del suo. E lei, forse, è l'unica persona in grado di salvarlo. 
Perché quando la vita ti trascina in un abisso oscuro, per risalire puoi soltanto nuotare contro la corrente, respirare e amare. Arriva finalmente in Italia Sei in ogni mio respiro, un romanzo intenso, coraggioso e sexy. 
Con un messaggio che ci tocca da vicino: nella vita, per quanto ci sentiamo annegare e trascinare sempre più a fondo, ci sarà sempre qualcuno a cui aggrapparci, qualcuno che sarà lì per insegnarci di nuovo a respirare.



«Romantico e intenso. Mi ha travolto e lasciato senza fiato. 
E con la voglia di averne di più.»





Dal fondo 
INCIAMPO sul primo gradino davanti al dormitorio e finisco distesa sull’asfalto. Rimango lì per un momento, a pensare che con le chiavi conficcate nella mano dovrei sentire più male. Per non parlare delle ginocchia, visto il colpo che si sono appena prese. «Benissimo», mormoro, poi mi rialzo e arranco fino alla porta. Rido tra me mentre a fatica cerco di infilare la chiave nella toppa. La buona notizia è che, se davvero ho preso una bella botta come credo, forse domani proverò qualcosa. Sempre meglio che non provare niente, no? Quasi mi merito una medaglia. Non che questa sia una gran vittoria però, andrebbe bene anche una medaglia di bronzo. Mi appoggio alla porta per tenermi in equilibrio, mi sembra immensa. Aspetta, cosa vale ancora meno del bronzo? Il ferro? Lo zinco? Le fanno le medaglie di zinco? Dopo aver armeggiato un po’ con la serratura, capisco che sarà difficile entrare in un dormitorio nel Wisconsin con la chiave della mia casa vicino a Boston. Alla fine infilo quella giusta. «Ce l’ho fatta!» sussurro trionfante. La grossa porta in metallo è pesantissima e botte che ho preso, so già che domani starò da schifo. E così continuerà la mia infinita ricerca di sensazioni fisiche e non. Di qualsiasi cosa. Ma anche adesso che sono ubriaca marcia, sono sicura che difficilmente i lividi lasciati da una notte di alcol si possano considerare un passo avanti sul piano emotivo. È già qualcosa, però. Qualcosa di diverso dal torpore. Almeno una distrazione, e le distrazioni sono sempre le benvenute. Le scale sono inondate da un’orrenda luce al neon. Sono deserte, anche se a quest’ora so che da un momento all’altro potrei incontrare uno studente come me, che rientra barcollando abbracciato alla sua scopata-da-una-notte. Non riesco proprio a capire come faccia la gente a scopare in questo posto. Chiunque sembri anche solo vagamente attraente in un ambiente normale perde il proprio fascino non appena entra qui dentro. Gli occhi annebbiati dalla birra non vanno d’accordo con questa luce crudele. Mi appoggio alla parete del pianerottolo del primo piano e tiro fuori dalla tasca il telefonino. Il mio riflesso sul piccolo schermo nero conferma i miei sospetti: i riccioli già disordinati di natura sono sfuggiti dalla coda e ora formano una specie di aureola crespa intorno alla testa. E riesco persino a vedere le borse sotto agli occhi. Sembro una pazza. «Sembro una pazza!» strillo, accompagnata dall’eco delle mie parole strascicate. Ma forse sono sempre così? Non che me ne freghi più di tanto. In realtà non passo molto tempo davanti allo specchio o a preoccuparmi della mia immagine. Ho l’aspetto che ho, punto. Tutto sommato, non importa. Tanto non ci fa caso nessuno. Però sì, devo ammettere che stasera sembro davvero una pazza. Quando arrivo alla mia camera, apro con una spinta la porta che non avevo nemmeno chiuso a chiave. Per fortuna non ho una compagna di stanza che possa lamentarsi di tutto il rumore che faccio. Se n’è andata qualche giorno fa – penso per vivere con qualcuno meno catatonico – quindi ora ho questa doppia tutta per me. Come non capirla, poverina. Se ci si ritrova in trappola in un campus relativamente piccolo appena fuori Madison, nel Wisconsin, è meglio circondarsi di gente allegra. Attraverso la stanza buia, sbatto l’alluce contro un libro – quasi di certo quello di antropologia – e crollo sul futon. Già, il mio grande futon. L’ho sostituito al letto singolo fornito dal dormitorio, e vedendolo chiunque penserebbe che sono il tipo che si porta i ragazzi in camera. Ma in quel campo sono una frana totale. Aggiungi anche questo alla cazzo di lista. Ho perso il conto degli studenti che, imbottita di alcol, ho illuso e poi respinto prima che potesse succedere qualcosa. Il pensiero delle mani di qualcun altro addosso mi dà la nausea. Non è normale, lo so, ed è per questo che, quando bevo, fare del sano sesso occasionale mi sembra sempre un’ottima idea. Sarei come tutte le e dettagli sconci. Io, quando voglio, so attrarre un ragazzo. L’alcol mi dà questo potere. E i maschi rispondono, anche se non ho idea del perché. È naturale voler entrare in contatto con gli altri, credo. Solo che io non voglio. Non sul serio. Dev’essere per questo che non ho amici veri. Io bevo e recito la mia parte nella speranza che, volendo intensamente una cosa, questa succederà sul serio: se riuscissi a fingere abbastanza a lungo, magari potrei creare un legame e, forse, riuscire a sentirmi di nuovo completa. All’inizio la commedia è divertente, ma poi, quando a fine serata mi scontro con la realtà e vengo travolta dalla mia intollerabile solitudine, mi sento ancora peggio. Lo so che non è una mossa molto furba illudere i ragazzi e poi scappare via quando cercano di toccarmi. Ma io ho una mia strategia. Spesso confesso che sono vergine, la rivelazione perfetta per congelare le voglie di qualsiasi maschio. È stata una scoperta piuttosto buffa. Pensavo che a un ragazzo piacesse l’idea di essere il primo. Nessuna ansia da prestazione acrobatica o chissà che altro, dal momento che sono una sprovveduta. A quanto pare, però, gli intelligenti e bravi studenti di questo piccolo college nel bel mezzo della tundra innevata del Wisconsin non vogliono prendersi la responsabilità di deflorare una studentessa ubriaca. Chi l’avrebbe mai detto. Comunque, ogni volta mi assicuro che non ci sia mai nulla di fisico, mettendo da parte il mio grande desiderio di trovare una via di fuga, per quanto temporanea. Ma in fondo so benissimo che non mi divertirei, considerato che la mia eccitazione raggiunge livelli degni di un sasso. Ecco, aggiungiamo anche frigida alla lista. A quello stupido inventario mentale che mi sforzo così tanto di non fare. Un elenco sempre più lungo di tutti i miei difetti. Le mie inadeguatezze. I miei fallimenti. Dovrebbe esserci anche una lista dei miei successi, no? O almeno delle mie… adeguatezze? Cerco di concentrarmi. È difficile con tutto questo cazzo di alcol, ma ci provo. È importante. A scuola me la cavo. Mi faccio la doccia regolarmente. So un sacco di cose sulle maree. Mangio praticamente di tutto, tranne l’uvetta. Cristo. Mi concentro di nuovo. Sarò anche ubriaca, ma posso fare di meglio. Ho piena padronanza dell’arte della malinconia. Dubito che tutto ciò si possa anche solo vagamente considerare un «successo». Mi rimetto a pensare, determinata a trovare qualcosa che ho fatto e che meriti di essere citato. Ho vissuto. Dalle labbra mi scappa una risata orribile, un suono amaro che calcio. Ho ancora il telefono in mano e lo guardo confusa. Mi gira la testa. Non mi arrendo mai con mio fratello. Questo nella lista dovrebbe andare tra i «successi». Senza riflettere né pensare a cosa dire, lo chiamo. «Cristo, Blythe. Che cosa vuoi?» borbotta James. «Scusa. Ti ho svegliato, vero?» «Sì che mi hai svegliato. Sono le tre di notte.» «È così tardi lì? Be’, sei al college anche tu. Pensavo che stessi rientrando adesso.» Rimango in attesa, ma lui non dice niente. «Come vanno i corsi? E la gamba? Scommetto che diventi più forte ogni giorno che passa.» «I corsi vanno bene, e piantala di farmi domande sulla gamba, ok? La tiri in ballo ogni volta che ci sentiamo. Basta. Meglio di così non potrebbe andare, cioè va di merda. Piantala di chiedermelo.» Lo sento sbadigliare. «Sul serio, va’ a letto.» L’irritazione evidente e il disgusto nella sua voce mi bruciano dentro. «James, ti prego. Mi dispiace.» Dannazione. Dal mio tono si capisce che ho bevuto. «Non parliamo mai. Volevo sentire la tua voce. Volevo sapere se stavi bene.» Sospira. «Sì, sto bene. Tu invece sembri messa male.» «Come sei gentile.» «Be’, è vero.» Fa una pausa. «A mamma e a papà non piacerebbero queste stronzate. Lo sai. Non puoi… Non possiamo parlarne un’altra volta?» «Mi dispiace così tanto per tutto. Ho bisogno che tu lo sappia. Che tu lo sappia davvero. Le cose potrebbero andarti meglio. Voglio solo…» «No. Non ora, non di nuovo. Non faremo ancora questo discorso del cazzo.» «Ok.» Fisso l’oscurità fuori dalla finestra. Siamo alla fine di settembre, e so cosa accadrà. Nulla di buono. Come ogni anno. «Certo, James.» Al ridicolo tentativo di usare un tono allegro e disinvolto mi si incrina la voce. «Parleremo presto. Abbi cura di te, James.» È andata bene, penso. Non mi aspettavo di meglio. Se chiami qualcuno nel cuore della notte e sei ubriaco, è scontato che sarà un fallimento. Lo so perché mi è già capitato. La cosa tragica è che, dopo ogni stupida chiamata a mio fratello, mi riprometto che la prossima volta andrà meglio. La cosa schifosa è che quando poi gli telefono da sobria durante il giorno non va meglio; finisce sempre con una conversazione formale e imbarazzata. Con un profondo sospiro, accendo la torcia dall’app sul cellulare. Adoro il fatto che non preveda solo una normale luce bianca, ma mi permetta di scegliere il cavolo di colore che voglio. Appoggio il telefono sul letto, e parte della stanza si illumina di un inquietante blu elettrico. Qualche ricciolo sfugge dall’elastico e mi ricade intorno al viso. Non ce la faccio a guardarmi perché non sopporterei di vedere una ragazza con così poche speranze. Di una debolezza imperdonabile. Mi sento umiliata dalla mia inettitudine. Giuro a me stessa di trascorrere almeno le prossime ventiquattro ore senza bere. Dal rubinetto esce acqua gelata. Me la getto sul viso. Non smetto fino a che non ho più lacrime calde da sciacquare via.

Gesti importanti 
Le sei di sabato mattina non sono esattamente l’orario ideale per svegliarmi. Fulmino l’orologio con lo sguardo. Be’, ormai non posso farci niente. Sono sveglia. Le cose sono due: o mi alzo e affronto la giornata, o resto a letto ancora per qualche ora, a farmi risucchiare nello spiacevole e familiare vortice di pensieri, panico, depressione e apatia che da quattro anni ormai domina la mia vita. Meglio alzarsi. Batto le palpebre al buio e, per l’ennesima volta, mi sento stanca, senza più voglia di combattere. Me n’ero accorta già ieri, quando ho incontrato il mio quinto, e spero ultimo, tutor, una tizia di nome Tracey. A sentire lei, non sarà difficile resuscitare la mia carriera universitaria. Ovviamente non sa con chi ha a che fare. O forse si è dimenticata che mi restano solo otto mesi prima della laurea. Faccio un bel respiro e muovo le dita dei piedi. Se non altro non devo fare i conti con i postumi di una sbronza, perché ho tenuto fede alla promessa di resistere per ventiquattro ore senza bere. È un da ubriaca e mi ha riempita di tristezza. Per non parlare di quanto sia stato orribile incontrare Tracey con quel doposbronza epocale. Sono abbastanza certa di aver lasciato sulla sedia del suo ufficio una pozza di sudore misto a residui di alcol. Accendo la lampada sul comodino e scosto il lenzuolo. Sono davvero fortunata a non avere una compagna di stanza che brontoli per i miei orari strani. La luce gialla mi illumina il corpo, e mi metto a sedere. Mi scappa una smorfia nel vedere le mie gambe, ancora coperte di lividi che mi sono fatta quando ero ubriaca fradicia due notti fa. Va bene che di solito non bado più di tanto al mio aspetto, ma oggi non posso non accorgermi di quanto sia terribile, e non solo per i lividi. Ho un urgente bisogno di depilarmi le gambe e l’inguine e, dopo un attento esame, giungo alla conclusione che potrei anche fare dello sport ogni tanto. Andare avanti con tanta birra e tequila e poco cibo non fa bene al corpo. Sai che novità. Batto i piedi uno contro l’altro e mi guardo le cosce, ossute e flosce. Un mix davvero attraente. Tiro con troppa forza la veneziana dell’unica ampia finestra della stanza e faccio un gran casino. Fuori è ancora buio, ma quando ci si sveglia si alzano le tende, o almeno così fa la gente normale. È un gesto importante e, per qualche strano motivo, penso che forse oggi sarà il giorno buono per fare dei gesti importanti, magari addirittura per creare un vero e proprio legame con il mondo reale. Ho già preso la decisione di alzarmi presto e di non bere per altre ventiquattro ore. È già meglio di quanto abbia fatto da molto tempo a questa parte. Mi infilo dei jeans e una felpa con il cappuccio, lego i capelli e mi lavo i denti, poi ficco qualche libro nello zaino e vado alla caffetteria del campus. Se ho intenzione di fare altri gesti importanti oggi, avrò bisogno di un caffè prima. A quest’ora la caffetteria, di solito affollata di studenti, è deserta, a eccezione della sfortunata vittima costretta a lavorare dietro al bancone. «Caffè?» mi chiede il ragazzo. «Due, grazie. Americani. Senza latte.» Lo vedo sbirciare alle mie spalle. «Sì, sono tutti e due per me.» Lo osservo mentre lavora tamburellando le dita sul bancone. «Ecco.» Chiude con un coperchio i bicchieri usa e getta e passa il mio badge nel lettore. Dopo averlo ringraziato, mi guardo intorno. Di solito mi metto vicino all’uscita di emergenza ma, visto che oggi non c’è nessuno, mi siedo al centro della sala e appoggio i piedi su una sedia. Al primo sorso, il caffè è così forte e amaro che faccio una smorfia, ma so che al quarto andrà giù senza problemi. Come gli shot! penso. Controllo il cellulare. Sono passati due giorni e non ho ancora ricevuto messaggi da James. Non che me lo aspetti, a essere sincera, ma la speranza è l’ultima a morire. Ah, ci risiamo. La speranza. Magari una sera mi chiamerà lui dopo una festa, ubriaco, per farmi una conversazione sincera da sobri, per risolvere tutte le questioni di cui non abbiamo mai parlato e tornare a essere migliori amici. Come una volta. Faccio una smorfia. Come se fosse possibile. È un bene che lui vada al college in Colorado, lontano da me, così non deve temere che di punto in bianco mi presenti alla porta della sua stanza. Chiudo gli occhi e inspiro a fondo. Devi solo arrivare alla fine di questo giorno, Blythe. Puoi farcela, cazzo. Certo, sarebbe stato meglio se non mi fossi svegliata all’alba, allungando la giornata più del necessario. Ma ormai mi sono alzata, sono uscita, sto bevendo un caffè e ho persino infilato le cuffie per ascoltare la radio. Di solito non ascolto musica. Non più. Prima, quando tutto andava bene, trascorrevo ore a saltare da una stazione all’altra, scaricavo canzoni e ballavo in camera mia. Guidavo la Honda dei miei genitori e mi perdevo nella musica. Una musica che aveva un cuore. Che mi regalava emozioni. E mi divertivo a fantasticare sul futuro. Vado sul sito dell’emittente nazionale NPR e passo in rassegna diverse storie. Alla fine ne scelgo una che si preannuncia piuttosto disgustosa su un ex vegano che ha riscoperto la carne. Verso la fine, quando salta fuori che il piatto preferito dell’ex vegano sono i piedini di maiale, qualcuno si lascia cadere pesantemente sulla sedia davanti a me. «Ehi! Mi hai preso un caffè! Sei stata davvero gentile.» Alzo lo sguardo, stupita. Mi trovo di fronte un ragazzo dall’aspetto trasandato con una maglietta strappata e dei jeans. Si toglie un cappello da cowboy e vedo dei capelli neri tutti arruffati – ma adorabili, devo ammetterlo – e una barba di almeno tre giorni. Anche se arrossati, i suoi occhi sono di un azzurro penetrante. È grande e grosso. Non grasso, robusto. A giudicare dall’odore che emana, direi che la sua pancia è dovuta soprattutto alla birra. A colpirmi però è il sorrisone che ha stampato in faccia. Be’, oltre al fatto che si sta bevendo il secondo caffè che mi sono appena comprata. «Questo caffè non è poi così male», dice dopo averne assaggiato un sorso. «È vero che a tutti piace lamentarsi che il caffè del campus è un intruglio imbevibile, ma è solo una scusa per farsi dare dei soldi da mamma e papà e andare in quel posto con dei prezzi esagerati appena qua fuori. Com’è che si chiama? Chicchi, Chicchi , vero? Che nome stupido. Non per lo spettacolo teatrale a cui sto lavorando però, che si chiama proprio Chicchi, Chicchi: il Musical . Visto che sei stata così generosa da offrirmi questo caffè, ti ringrazierò con dei posti in prima fila. E dei pass per andare dietro le quinte! Aspetta di conoscere il tizio che interpreta il Macinatore Cattivo Numero Tre. Sul palco fa una paura d’inferno, ma in fondo è proprio una brava persona.» Si interrompe per bere un lungo sorso, poi batte un pugno sul tavolo e sorride. «Cazzo se scotta, eh? Proprio come piace a me.» Lo guardo stupita, aspetto che la pianti con questa sceneggiata. Lui non rispondo. Allunga una mano. «Sono Sabin.» «Blythe.» Gliela stringo. Anche se di solito il contatto fisico mi innervosisce, mi sento stranamente a mio agio mentre la sua grande mano avvolge la mia. Chissà perché, il suo tocco mi calma. «Blythe, è un vero onore conoscerti.» Mette l’altra mano sopra la mia, prima che riesca a ritrarla. «Ora dimmi, cosa ci fai in piedi così presto?» «Io… non lo so.» Sono confusa. Chi è questo ragazzo? «Non riuscivo a dormire. E tu cosa ci fai in piedi così presto?» «Mi hai beccato! Anche se, nel mio caso, la domanda dovrebbe essere: cosa ci fai ancora in piedi?» Gli rivolgo un sorriso timido. «Oh, capisco.» Restiamo seduti in silenzio per qualche istante. Lui stringe ancora la mia mano tra le sue e mi guarda, in attesa. Dovrei tirarla via, ma non ci riesco. Questo ragazzo è troppo strano e tenero. «Non mi chiedi come mai non sono ancora andato a letto? Visto che siamo amici intimi, i miei spostamenti dovrebbero essere una questione di una certa importanza. Dovresti impazzire per la curiosità ormai. Sabin ha passato la notte al karaoke di un parco divertimenti? È stato rapito da capre aliene vestite da cowboy?» Indica il cappello sul tavolo e inarca un sopracciglio. «E sottoposto a un’umiliante, anche se eccitante, perquisizione corporale? Oppure un tatuatore benintenzionato ma inetto e strafatto ha sbagliato a scrivere DIO, CREDO IN TE e l’ha marchiato per sempre con BIO, CREDO IN TE ?» «Oh.» Nonostante questo strano discorso, non mi sento a disagio come spesso mi capita quando parlo con qualcuno che non conosco, sono semplicemente un po’ smarrita. «Avrei dovuto chiedertelo subito. Scusa.» Cerco di riprendere il controllo della situazione e mi domando se questo tipo non stia flirtando con me. Non mi pare. «Allora», dico, «perché no?» «Perché no cosa?» Oh Signore. «Perché non sei ancora andato a letto?» «Oh! Già!» Non allenta la stretta, ma si alza costringendomi a imitarlo e si preme la mia mano sul petto. «Ho conosciuto una donna, quindi tecnicamente sono già andato a letto. Solo che non ho dormito. Si chiama Chrystle ed è eterea. Bella da togliere il fiato. E», aggiunge con un occhiolino, «angelica nel modo meno angelico possibile. Mi sono innamorato.» Non riesco a trattenere una risata. Soprattutto perché adesso sono certa che non ci sta provando con me. È già innamorato. O almeno arrapato. «Sei stato salvato da una brava ragazza?» gli chiedo. «Per ora.» Altro occhiolino. Mi lascia andare la mano, torna a sedersi e si rimette il cappello da cowboy. «Bene, ora sai tutto ciò che c’è da stai seduta qui da sola, con uno zaino probabilmente pieno di libri costosi… conosco il tipo. E poi, io sono al terzo e non ti ho mai vista in giro, o almeno non mi sembra. E a quanto pare tu non sai chi sono.» «Capisco, credo, ma in realtà il mio zaino non è così pieno di libri. E non me ne vado ‘in giro’ più di tanto. Diciamo piuttosto che ormai sto contando i giorni che mancano alla laurea.» Alzo le spalle. Non che sia del tutto vero, s’intende, visto che non ho dei programmi particolari per dopo, ma è un modo come un altro per spiegare come mai non partecipo alla vita del campus. «Dovrei conoscerti, per caso?» «Se non sei un’amante del teatro, probabilmente no. Quando non faccio la corte alla popolazione femminile, sono in scena. Quindi non mi hai visto nello Zoo di vetro ? Ho fatto un’esibizione niente male, se permetti. E l’inverno scorso ho diretto Casa di bambola .» Attende, ansioso, una mia reazione. «No? Nulla?» Lo fisso perplessa. «Mi spiace.» «Mi sento offeso. Tanto. Considerando che adesso siamo amici intimi, d’ora in avanti mi aspetto che tu venga a ogni mio spettacolo. Affare fatto?» «…‘adesso siamo amici intimi’?» Questa scenetta è al tempo stesso disarmante e divertente. «Sì. Non pensi? Mi sembra giusto.» «Certo», annuisco. In effetti, qualcosa fra di noi c’è. E l’atmosfera nella sala è cambiata. Perlomeno per me. «Allora verrai a vedermi nell’ Importanza di chiamarsi Ernesto ? La prima è tra quattro settimane.» «Ok, verrò.» È più facile dire di sì che cercare di spiegargli la mia avversione per gli eventi mondani. Almeno per quelli dove non si beve. «E, in cambio, io verrò a qualsiasi cosa mi inviterai.» «È… bello da parte tua. Non mi viene in mente nessuna occasione da proporre nell’immediato futuro, ma ti terrò presente.» Giocherello con il coperchio del bicchiere per evitare di guardare Sabin. Dev’essersi accorto anche lui di quanto siamo diversi. Sono mortificata ma sento che, se fossi onesta con lui sulla totale inconsistenza della mia vita sociale, potrebbe interpretarla come una richiesta di aiuto. E questa è l’ultima cosa che voglio. «Ehi… aspetta un attimo!» esclama lui tutt’a un tratto. «Io ti ho già visto! Tu tracanni più birra di ogni ragazza che abbia mai incontrato!» «Oddio.» Mi prendo la testa tra le mani. «Sono amico di una vera e propria campionessa. È fantastico.» Incrocia le braccia sul petto, raggiante. «Fantastico, ecco. È davvero, davvero fantastico», mormoro. il mio numero. «Ecco. Adesso ognuno ha il numero dell’altro. In che dormitorio sei? Io sto a Leonard Hall, stanza 402, se ti va di fare un salto.» «Ok. Io sto a Reber, stanza 314.» «Su col morale.» Si china e mi dà un bacio sulla guancia. «Sei bella quando sorridi.» E poi esce dalla caffetteria come un tornado, e si avvia verso destra. Scuoto la testa. È stato… è stato… Diciamo che è stato carino. In realtà, sono visibilmente commossa. E un attimo dopo mi sento schiacciata, completamente sopraffatta dalla tristezza. Questo breve scambio di battute è la cosa migliore che mi sia capitata da un sacco di tempo a questa parte. Non è una cosa maledettamente orrenda? Certo, questo ragazzo non ha idea di quanto io sia incasinata e, se avesse saputo quanto sono stupida e demoralizzata, probabilmente non si sarebbe mai avvicinato a me. Sospiro. Prima o poi lo scoprirà. Probabilmente non appena smaltirà la sbronza. In realtà dopo questo incontro mi sento piena di energie, quindi prendo quel che resta del mio primo caffè – Sabin si è portato via il secondo – e mi dirigo verso il lago. Oggi potrò dire di aver fatto qualcosa di inaspettato. Questa passeggiata sarà il mio gesto importante.

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